Ancora Fischia il Vento (nuovo)

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Aggiornato: 8 ore 31 min fa

CONSOLIDAMENTO E NON RISTAGNO

Mar 27/08/2019 - 00:01

di Tracce

Quella copertina di cartoncino verde, con rettangoli rifilati in oro e all’ interno tre scritte : I GRANDI NARRATORI DI OGNI PAESE , l’autore – in questo caso –  Charles Morgan, il titolo L’AIRONE e nel retro impressa una testa di medusa, rivestita da una sovracopertina che riproduce quella della edizione originale. In basso l’Editore, quando era ancora Arnoldo.  

Questo particolare volume è sciupato, è stato letto da due generazioni della stessa famiglia, spesso anche riletto, come si nota. Non è maltrattato, è stato sfogliato e risfogliato, la copertina è logora, il dorso usurato; l’onore delle armi gli va reso, non mostra segni di moda transitoria. Mostra quelli del trascorrere degli anni.

Un volume edito in Italia nel 1951 neanche un decennio dopo la fine della seconda guerra mondiale, di piena attualità oggi. Scritto da un inglese. Altri sono stati scritti da americani e da francesi e da tedeschi e da italiani che stavano ancora vivendo i postumi e ne portavano dolorose cicatrici, non ancora rimarginate, sulla pelle.

Alla fine della prima guerra mondiale erano stati i tedeschi e gli inquietanti ungheresi da Fallada a Kormendi a Zilhay a Szabo a Marai al grande Kosztolanyi a tratteggiare quel che del mondo era rimasto : una generazione “felice”. Due titoli ad affiancare L’airone : E adesso pover uomo e La generazione felice. Scritti da testimoni dell’epoca, non resoconto giornalistico puro e semplice, da sopravvissuti in transizione tra due epoche contrapposte. Terremoti, mutamenti epocali.

 Se ne fa poca memoria, ma su certi scaffali e in vecchie librerie all’inglese dietro i vetri fanno ancora capolino e non si fanno soppiantare. E, vanno riletti e posti all’attenzione di chi, oggi, incarna la “generazione felice”.

Desunto e liberamente ritagliato dalla pagina n.61 de L’airone di Charles Morgan come una presa di responsabilità per l’avvio di un’età di consolidamento che non sia ristagno. Tenuto conto che ne L’airone il tema riguarda Inghilterra e Europa, oggi e qui Roma/Italia/Europa. Da riscoprire i punti in comune.

rebirth contro Rinascimento, tentativi anche in arte, nati morti nei forum proprio in Roma. Minuscole e maiuscole non sono poste a caso.

Gli invisibili in vista

Dom 30/06/2019 - 00:01

di Tracce
Concreti mobili colloquianti. Il drappello in qualche modo pervenuto. Dai più scuri punti del globo. Dislocati in modo da opporsi al passante facendosi scudo uno dell’altro per rendere finalmente gli altri insicuri, incurvati sotto le croci di legno che formano le braccia. Gli abiti ( che siamo noi ) addossati al loro spirito formano un insieme di pensieri e azioni privi di amalgama. E tuttavia è così che diventano visibili, costretti a indossare i nostri pregiudizi, le nostre spinte indietro, che li privano di mani di occhi di gestualità raggelati a braccia spiegate come ali monche.


Passaggi sonori accompagnano l’addentrarsi tra i personaggi, orchestra di vocistrumenti di chi si racconta, e si attivano all’approssimarsi per confondersi e svanire mentre crescono quelli del nuovo incontro. Okoro Prince, Akhgbe Damian, Ahmod Shamin, Soumamoro Namoury forse si danno sulla voce, conoscono per certo il motivo per cui sono respinti, mentre spiegano in un colloquio serrato a tu per tu la loro essenza di non spaventapasseri pur avendone le sembianze. Si confrontano si paragonano con chi li sta a guardare tipi diversi di manichini di quest’epoca mentre Keita Moussa Howlader Nur Jamal, Muhammad Amjad Jayed, MD Azizul Islam, Darboe Sheriff M.L., NjideDawda, intervengono con frasi di sabbia calpestata e di mare salato dal sole, di terrore dei campi libici e degli aerei che la ricca Germania riempie di vite umane per rispedirli come carta straccia là dove hanno poggiato il piede appena emersi dalla rotta verso il sogno nordeuropeo. Miseria scura eredità bianca del tempo delle colonie. Un’associazione culturale, McZee, la CRI di Macerata, il patrocinio di ICOM Italia e l’artista ChiaraValentini e queste presenze ispirate da un romanzo fiaba di L.F.Baum, ci sovrastano.
Più ti muovi e più senti voci.
Anche gli spaventapasseri colloquiano nelle campagne con uccelli migratori senza paura.

Giuliano Scabia portava in giro il suo angelo per cammini interminabili, o accompagnava alberi in fuga con stuoli di personaggi. Questi abiti che rivestono croci di legno, a testa alta fronteggiano chi li attraversa attivando parole per mezzo di un congegno elettronico, senso di esistenza non più invisibile. Il diaframma fra visibile e invisibile è labile. L’invisibile si trasforma in visibile. Altri due ambienti affidati all’ingegno di Daniel Rich e Claudia Peill. Non ci si può scrollare di dosso la presenza incombente dell’umore sonoro che ci insegue e si mischia a quello degli intervenuti; si fa largo da terra fra alberi e muri di cortile uno scorcio di cielo. Voci e voci. Le stesse di prima.
Calpestio di piedi non piedi, ritmato e monotono.Se ne stanno andando. Facendosi largo con mani non mani su braccia allargate.



Invisibili inquietanti presenze assenze.

L’attentatuni 23 maggio 1992 ore 17.58

Dom 26/05/2019 - 00:02

performance dal vivo     

di Tracce                                                          

Un ricordo ; il 1998 legato a un’associazione e a un paese del sud in Italia. L’Associazione si fa carico di dar voce agli uomini, quasi sempre anonimi, che compongono la scorta destinata a persone che, per gli incarichi che ricoprono, diventano bersagli. I loro cognomi figurano negli ordini di servizio e lì restano accanto a quelli delle persone che devono scortare, perché questo è il compito loro assegnato in favore di questo o quel personaggio che ne ha esigenza.                                                                                                                                       Sono quasi sempre gli stessi. E diventano una famiglia allargata alla propria e a quella dell’altro. E a quelle dei colleghi. In realtà trascorrono la maggior parte del tempo con la persona da scortare e con la sua famiglia. Va da sé il consolidamento di un legame che esula da quello tenuto nel corso di un normale servizio all’interno di un normale ufficio di un normale commissariato di polizia. Si stabilisce un rapporto di conoscenza di interscambio di pensiero, di ruoli senza ruoli, cancellando o sovvertendo gerarchie in caso di improvvise e drastiche scelte imposte dalle circostanze.                     

Così avviene nel caso di Giovanni Falcone e Francesca Morvillo, entrambi magistrati e per Antonio Montinaro, Rocco Dicillo e Vito Schifani, gli uomini della scorta. Rocco Dicillo era scampato, col Giudice Giovanni Falcone, all’attentato all’Addaura, giugno 1989, fallito; non quello successivo di Capaci, sull’autostrada Punta Raisi Palermo. Vito Schifani era padre da pochi mesi e sua moglie ventiduenne, con uno straordinario coraggio chiese alla Mafia il pentimento per la strage compiuta, il giorno del funerale in Cattedrale stigmatizzando l’evento e le autorità presenti. Le mani di Rocco Dicillo permisero alla compagna che avrebbe dovuto sposare di lì a poco, il riconoscimento. Antonio Montinaro capo scorta storico.

Antonio Montinaro  capo scorta

Pagina precedente Rocco di Cillo  Vito Schifani

Tutti e tre questi uomini hanno avuto compagne straordinarie Rosaria, Tina, Alba.

Vogliamo ricordarli, tutti, anche i superstiti con questi brani tratti da La Scorta, un laboratorio teatrale dove alcuni giovani, senza nessuna esperienza professionale, raccontarono la Storia, forse senza nemmeno rendersi conto che su quella terrazza e in quella cittadina, pronunciando i loro nomi, li facevano vivere.

Quarto Savona 15       Quarto Savona 15       Quarto Savona 15

-Signor Giudice, ma lei lo sa…

Signor Giudice, lei non ha paura ? Ora tocca a lei di sicuro.

-Ma non ci arrendiamo, andiamo avanti, io e te siamo nella stessa barca e indietro non si

torna.                                                                                                                                                

Paura coraggio.. Il coraggio è saper convivere con la propria paura.                                                                       

Ecco il coraggio è questo, altrimenti non è più coraggio. E’ incoscienza.

Non è la scorta che potrà difendermi dalla mafia; la mafia mi ammazza quando è certa che sono

isolato. Si muore se si è soli –

 (Tommaso Buscetta e Giovanni Falcone)

Dal testo La Scorta

Probabile incontro impossibile (Giovanni Falcone e Paolo Borsellino)

-Forse un giorno dovremo scusarci per lo spirito di servizio che ci ha spinto avanti.

Dimenticheremo le attese nei corridoi dei piani alti

Le promesse mancate

Gli assalti subìti.

-Come quella volta nel corso di quella trasmissione. Come si chiamava

-Samarcanda

Sì. da Santoro in staffetta con Maurizio Costanzo.

-L’assalto di quel giovanotto, paffuto rotondetto

-1991

Aleggiava un’aria nera velenosa

-Oggi chi sa forse saremmo tacciati di giustizialismo e…brindisi con cannoli che ne dici ?

Coppola o borsalino in testa champagne vino cannoli

-No, amico mio staremo sempre bene insieme

Noi, due galli in un pollaio lasciatecelo dire

-Cassate ( con cambio di consonante)

Dolci di casa nostra (con cambio di vocale)

-Non ci scusiamo.No.No.

Sempre dal testo :

23 maggio 1992 : ombra illusione vano simulacro   bianco senza luce  luce senza bianco     distanti scagliate  frammentate schegge impazzite che tracciano scie rosse crudeli cruente e noi come sollevati in aria oltre il fragore la polvere le fiamme incidiamo la volta senza nome senza peso senza corpo siamo pezzi di

scorta

protendiamo la mano le nostre mani allacciate strette attorno al nostro giudice e a sua moglie – 23 maggio 1992 – scomparsi in una nube dentro una voragine oltre il fragore il calore di lamiere blindate inutilmente nient’altro oltre il rotolare del tempo la vita scrollata di dosso

cerchiamo cercate continuate a cercare

la verità.

Dal testo, dedicato ai figli:

…per quei bambini che oggi sono grandi per quelli appena nati che lasciai voglio cantare mentre ne ho la voglia

Voglio giocare i giochi non giocati – sono trascorsi per te i giorni e gli anni – sono i giorni passati i miei rivali                                                                                                   

Trotta trotta cavallo di legno col tuo bel cavalier sulla groppa

trotta trotta se arrivi a quel segno per un fiato ti riesco a sfiorare                                                     

Trotta trotta cavallo di legno che poi cresci e mi lasci a guardare

Su galoppa galoppa galoppa

un attimo insieme noi vogliamo come il vento volare      Tu galoppi galoppi galoppi noi restiamo a raccogliere scorie

e proviamo a tenere fra le dita un momento così tra virgolette “……………….”

Sei tu

Sono io

Vivi lontano

Da te. Per sempre.

E non ritornerai.

In sogno.

Forse.

Hai visto mai che ti mettono la vita in una lavatrice pazza

Un colpo di tuono nel cielo un furto di scroscio assordante è stata rapita soltanto la vita un niente davvero spavento che scoppia da schianto da furia un arcobaleno da rogo Sono colori stesi ad asciugare fa’ conto che la vita sia un bucato ficcato a forza in una lavatrice pazza con i gesti e i giorni ben piegati sono colori stesi ad asciugare

  • Cervi volanti fatti a pennarello la scuola i libri merendine viola passione rosso timidezza il verde bile il giallo gelosia
  • La vita ch’era tua no ch’era mia tinta stinta sciacquata e ritinta attimi sparpagliati a casaccio con polvere da sparo brividi esplosivi rimessi dentro nel frullatore
  • Pardon la lavatrice pazza, un poco     Il tasto tre colori delicati, cancellato
  • -trenta gradi saliti a mille di più di più di più
  • Un guasto nel sistema : è steso lo stesso il bucato com’è                                                    danzano insieme il rosso ed il viola il verde ed il giallo

Parole stese ad asciugare cose non dette d’amore cose brusche di necessità senza pensarci c’è tempo a rimediare moti adolescenziali impazienti momenti trasformati in pietre incandescenti                                                                                                                                               Sono le membra stese ad asciugare trascolorare svanire

Scorta esaurita

Fuori produzione

Niente più blu pavone

Ieri oggi ieri ieri ieri oggi non era tua la voce un’ora fa’ niente domani

Mollette nello scuro a penzolare

Nella cenere grigia

Frammisti a vetrinisassettigranellibruciatidiasfalto

I tuoi occhi i tuoi capelli

E girano e girano e girano con i giorni e i gesti aggrovigliati

Perchè ci è toccato

Proprio a noi

chi ha ordinato ?

 la memoria si può mantenere. Continuiamo a farlo.

e la verità ? 

A Tina Montinaro  al Rappresentante dei Poliziotti Santo Laganà, ai Carabinieri, all’Assessore alla Cultura Giovanni Cristina, ad Angela Di Francesca, presenti in quell’occasione, va il pensiero e il ringraziamento de I Vastasi d Vicolo Saraceni

Voglio l’incarico della rappresaglia

Dom 24/03/2019 - 00:04

di Tracce                          

monologo estratto da Scie di guerra

Voglio l’incarico della rappresaglia.

Ore 14.00 di quel giorno di quell’anno. Roma.

Trecento trentacinque prigionieri, rastrellati, raccolti a casaccio a Regina Coeli, nell’infermeria anche, a via Tasso, per strada.

Cinque in più spuntati dalla lista battuta a macchina nella notte seguita all’attentato di via Rasella, 10 italiani per ogni soldato tedesco ucciso, tutti passibili di varie pene, alcuni neanche incriminati dalla Gestapo, 5 in più per buon peso, e, naturalmente, settantacinque ebrei dentro anche loro, perché, loro, ci devono stare, sempre. E ragazzi minorenni, un sacerdote, un professore di filosofia gente come tutti quelli che sono restati.

Vanno i camion militari da Regina Coeli e da via Tasso oltre Porta San Sebastiano, le catacombe,

l’ordine è stato dato da gente di cultura

alt

le macchine obbedienti

alt

si arrestano ( nel senso di ) nel piazzale circolare, si situano in retromarcia in direzione del cunicolo

penetrano

nel cunicolo ostruito a tal proposito penetrano e scaricano

a cinque a cinque gli ostaggi spinti nell’antro di tufo lungo il cunicolo

a cinque a cinque

gli ostaggi lungo il cunicolo scendono e vengono ammazzati con un colpo alla nuca sparato dagli ufficiali per dare l’esempio  e a seguire dalla truppa,  ammazzati con le stesse modalità gli ostaggi

a cinque a cinque si abbattono

gli ostaggi per più di sessanta volte gli ostaggi

a gruppi di cinque in cinque stesi morti con un colpo all’occipite i corpi si sovrappongono ai corpi in strati regolari di cinque sotto gli occhi dei cinque che seguono

strati sovrapposti di cinque in cinque che si ammassano, fino a raggiungere la volta, di cinque in cinque e costringono chi spara a montare sugli strati che si formano mentre spingono innanzi a cinque a cinque

quel tanto che basta

per più di sessanta ore

e finito lo scarico

i camion

marcia avanti.                                                                                                                                              

Una miccia  un botto di dinamite territorio che vola in aria e ricade in frantumi con fragore ostruendo lo scarico,  terra su terra, sudario di terra che avvolge gli strati, sudario ricoperto di immondizie per mascherare il marcescente sentore della decomposizione

Echeggia nell’aria il fragore.

Da una galleria parallela qualcuno accede all’orrore. Una ulteriore pietra di silenzio attonita impotente.

Gente scomparsa, senza risposta dalle autorità tedesche. Lunghe soste di familiari. Laconici comunicati a seguire nei giorni successivi. Notizie di morti avvenute. Senza spiegazioni.

Nel luglio successivo, dopo la “liberazione” a seguito dello sbarco alleato, ma un inverno trascorso a coprire 44 km, tale è la distanza da Anzio a Roma, nel giuoco di ragazzini di Tormarancia si mischiano resti di indumenti e.

Resti.

Roma ha le prove di quanto intuito.

Con mani di scienza asettica l’incaricato anatomopatologo Attilio Ascarelli – che sa di avere due parenti in quelle tenebre – e il suo gruppo, danno inizio agli scavi e alla catalogazione dei reperti, ma alcuni restano non identificati.

Archeologi di genocidio di modernariato elencano :

separati dagli altri

ebrei settantacinque giovani e/o incanutiti

unica disuguaglianza

ebrei

tutti gli altri insieme vecchi giovani poveri ricchi in carcere per ragioni politiche umanitarie

rastrellati

e dunque ricchi artisti professionisti colti credenti atei semplici esistenze che hanno l’unica e sola colpa di esistere

fardello di esistere

l’Italia tutta campionario onnicomprensivo

un ragazzo di quindici anni

quindici un altro di quattordici

quattordici 3 di diciotto

e tutti gli altri

campionario Italia

pianto

acclamato

preso a pretesto e in prestito

convergenza divergenza ideologica

 di comodo negli anni successivi

e dopo

rinnegato disonorato (esaltato) campionario Italia tutta onnicomprensivo

Hostia

Corpi di carne e sangue vivo a gruppi di cinque a cinque a cinque strati

sovrapposti a strati a cinque a cinque

c’è voluto il tempo che c’è voluto per erigere fino alla volta la piramide di strati

sovrapposti

da scalare per continuare l’eccidio

nella fretta di concludere

nessuna offerta di scambio io spunto la lista tu batti a macchina P e K  che allargano il numero della rappresaglia  – 10 italiani – per ogni tedesco, il peso abbondante avvalora e migliora e perfeziona l’ordine

l’esecuzione 335 a cinque a cinque  che si assommano per raggiungere la volta di tufo.

E’ fatta.

Rien va plus.

Egli k dopo la guerra

Dopo il processo dopo

 La condanna

Evade spedizione bagaglio spedizione di infamia e disonore senza pentimento

E l’altro P servo dell’infamia a del disonore a sua volta campa cent’anni senza pentimento

Con la complicità di un tal Caruso, italiano di orrore, memoria di orrore.

Voglio

Rinuncio

                                                                                                                   All’incarico della rappresaglia.

P.S. Erigete sacrari

murate lapidi e pietre d’inciampo incidete nomi su muri

erigete un cancello a chiudere l’ingresso

17 febbraio 1600 – 17 febbraio 2019 Giordano Bruno in Campo di Fiore di Tracce

Mer 27/02/2019 - 00:02

Giordano Bruno, da Nola, filosofo, magari anche un poco maliardo (come nei documenti per “mago” ndr), scienzato, astronomo e altro ancora, viene portato in questa bella piazza riscaldata da un grande falò, detto anche rogo.                                                                                    

Ignudo salvo la mordacchia alla bocca per impedirgli di parlare se ancora ne abbia desiderio e fiato.

Umiliazione : “No one shall be subjected to torture or to inhuman or degrading treatment or punishment –  Articolo 5 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo – Nessun individuo dovrà essere sottoposto a tortura o a trattamento o punizione crudeli, inumani, degradanti.(opera esposta al Macro Asilo di Roma 10 dicembre 2018 open call di Plexus International).

Nihil sub sole novum.

Così Giordano Bruno, condannato come eretico.

Così la raffinatezza dei metodi cinesi di tortura

Così Guantanamo.

Così gli orripilanti campi di sterminio tedeschi, dove una scienza infame sperimenta procedimenti infamanti affiancati a metodi di sterminio fino al genocidio,

Così le vergognose leggi razziali adottate e promulgate dal fascismo

Così i gulag

Così le foibe

Così gli stermini degli armeni

Così l’Africa in toto

Così il Nord e Sud America

Così la schiavitù

Così i palestinesi

Così gli israeliani  e ancora ancora ancora

Così le guerre civili e le conseguenze derivanti dalle azioni dei vincitori sui vinti e chi sa quali e quanti eventi sciagurati mancano ma, ahimè, sono tutti presenti, attuali. Esseri “umani” che degradano e umiliano infliggendo dolore fisico e tormento psicologico ad altri esseri umani.                            

Dopo aver subito un processo estenuante in Venezia Giordano Bruno fu tradito dal Mocenigo, e subito trasferito in Roma. Detrattori ed esaltatori dal 1600 fino ad oggi. Regine e re e principi lo hanno ospitato durante il suo peregrinare per l’Europa, e con lui in italiano s’intratteneva la regina Elisabetta d’Inghilterra – lingua che oggi non è contemplata fra quelle ufficiali in Europa, ma l’Inghilterra ha sempre saltato alla corda per stravaganza  con un piede dentro e uno fuori brexitsì brezitno e, quindi, non ha niente a che fare con la cultura del tempo quando l’Italia era importante e faceva scuola pur divisa in stati e staterelli. Si potrebbe esprimere meglio, ma questa è la realtà dei fatti.

Del suo soggiorno romano, sette anni, qui troviamo controverse versioni: una buia umida cella, o un comodo locale pieno di luce dove la biancheria viene cambiata due volte alla settimana e dove l’imputato può ricorrere, si noti, al barbiere, e sono contemplati a suo uso bagni e lavanderia… 

Nei puntigliosi accurati verbali è documentata la concessione di un copricapo di lana e di una copia della Summa di San Tommaso
Verità dubbi. Autodafé o no ? Tortura feroce ? Lieve o del tutto assente? A Roma, nel corso del 1597, forse subisce una seduta di tortura; “forse” perché non va dimenticato che per l’Inquisizione la semplice minaccia di tortura è registrata nei verbali come tortura effettuata.

Ripensamenti fino a che il Tribunale dell’Inquisizione, pone fine una volta per tutte senza accogliere un ennesimo invito-tentativo in extremis di Giordano Bruno ad una piena assunzione delle colpe attribuitegli ?

Come si fa a trarre conlusioni di assoluta certezza quando la massima parte degli incartamenti del Santo Officio andò persa o bruciata ad opera dei soldati francesi ?

O fu fatta opportunamente scomparire quando fu posto, finalmente, fine al Tribunale dell’Inquisizione ? In quale meandro o sotterraneo vaticano si dissolse la maggior parte dei documenti ivi conservati?

I quesiti sono molti e molti non hanno una risposta certa.

Eretico? Certo che sì – sentenzia il Tribunale di Roma – un giorno dei primi di febbraio del 1600.  La sentenza è stata posta in atto, secondo un Avviso del 19 febbraio 1600, dove a mano si dà testimonianza che “… in Campo di Fiore ( luogo deputato all’esecuzione delle condanne a morte ndr) fu abbrugiato vivo quello scelerato frate domenichino da Nola (estrapolato) e diceva che moriva martire et volentieri et che se ne sarebbe la sua anima ascesa con quel fumo in paradiso.

Una lama di luce diretta verso l’alto, oltre il rogo oltre il puzzo di carne bruciata. Oltre. Il pensiero che sovrasta la cenere, la grettezza, la paura di perdere terreno e potere. 

Il pensiero, illuminante bagliore che si spande dalle spalle rivolte a quella cupola che simboleggia l’inquisizione e le parole stampate e racchiuse nei volumi proscritti, all’indice.                                                               

La cena delle ceneri?

Ecco servito il cibo del pensiero indipendente e avanti al suo tempo. Fallace, forse, in certi punti; occorre ricordare che siamo nel corso del 1500 in mezzo a dispute feroci tra una scienza immobile e una in divenire, Indice di rivolta e di voglia di sapere.

Ogni 17 del mese di febbraio, Indice.                                                                                                             Con il pensiero in piazza, scritto, declamato, dipinto, concretizzato. Chiamata aperta a tutti coloro che si proclamano svincolati da ogni tipo di schiavitù. Testimoni dell’oggi che è ancora e sempre quello di Bruno non lordato da bassezze.

La banda di Roma che alza le sue note, corone ufficiali e piccoli mazzi di fiori deposti sui gradini del basamento in una festa colorata di sole e cielo ,che ha inizio alle 10 di mattina e si protrae in varie fasi portate avanti fino a notte alta da cittadini e associazioni. Chiamata aperta di Marta Cavicchioni, Libero pensiero,  Jerry Cutrillo A great team for a great “Giordano Bruno” night of wine, songs and poetry  alla Libreria Fahrenheit.

L’onda martellante di Un valzer per il Mocenigo, colui che vendette all’Inquisizione Giordano. La musica di Jerry Cutillo mentre Venezia dorme ancora ma Giordano ne assapora già il profumo che avvolge, come in un abbraccio, questo suo ritorno tanto desiderato. Il filosofo ha accettato l’invito del nobile Mocenigo, interessato ad apprendere i segreti delle sue arti ma ciò si rivelerà una trappola che lo consegnerà presto nelle mani dell’Inquisizione.

Volge le spalle a tutti, in mezzo all’attenzione e alla musica e alle voci.

Volge le spalle per sempre, Giordano, a chi in quella piazza lo ha fatto abbrugiare ignudo e con la mordacchia mentre il suo pensiero e la sua parola continuano a incidere liberi per sempre le epoche a venire.

LAGAAT BAMAYIM, LAGAAT BARUACH (Tocca l’acqua tocca il vento)

Ven 11/01/2019 - 00:02

LAGAAT BAMAYIM, LAGAAT BARUACH                                                      

di Tracce

(Tocca l’acqua tocca il vento)

Essere avvolti dall’acqua, entrare nel vento. Quel vento analfabeta che segna accarezza  spiegazza e sciupa. Il vento che cancella i segni che imprime. Non sa leggere non sa scrivere ma sa cancellare. E tuttavia invita a serbare memoria. Incita costringe insegna scova da qualche parte il dono della memoria per ciascuno.

E’ finita l’avventura di Amos Oz tra noi, noi il mondo.

Da tempo qualche frase, un accenno, un brivido di pensiero, riempiva la pagina di un taccuino. Non era pronto l’intero. Un giuoco di tasselli che devono incastrarsi incatenarsi tra loro e qualcuno va perso, qualche altro si rivela un doppione diverso per colore a seconda dell’umore che lo ha generato. Non tutti i libri erano stati letti. A ciascuno il suo metodo : c’è quello cronologico e quello che si accende dopo avere letto a caso per attrazione di titolo o di copertina o per indicazione nata nel corso di una conversazione. Qualcuno viene presentato a qualcun altro. Una frase stentata avvia una conversazione con un interlocutore: un bicchiere in mano o un libro oggetto della serata o un ricordo. E quel qualcuno, se l’altro lo incuriosisce o lo stupisce, vuol saperne di più e si avventura; l’altro prova lo stesso senso o no, resta o fugge. Tocca l’acqua tocca il vento. Qualcosa di materiale o la sensazione.

Questo è l’incontro col libro. La pagina fisicamente offerta di presenza. La fascinazione.

In seguito l’avventura continua e inizia la caccia al tesoro, l’ordine cronologico non è più rilevante.

Si lascia sempre una riserva, un libro, in questo caso molti. Esistono quelli che devono essere meditati dopo essere stati divorati, per arrivare alla fine. Con ingordigia. E, alla fine, sorprendono con la richiesta pressante di essere riletti per ritrovare una frase un concetto che ha dato luogo a un esame di coscienza e a una presa di coscienza. Per trovare la pagina se ne devono scorrere molte e molte sono le riletture.

Libri e film sulla persecuzione del popolo ebraico ne esistono molti. Alcuni meritevoli altri meno o per niente. Film che vantano Oscar.                                                                                                   

Questo libro di Amos Oz racconta la Polonia al tempo dei tedeschi e tratteggia come contorno la vita della coppia protagonista, lui, figlio di un orologiaio che scappa nei boschi e lei che resta in città perché dei tedeschi non ha paura e alla guerra non crede. Anche perché Stefa è ebrea solo per metà, dal punto di vista della razza e quanto all’identità è tutta e soltanto europea. E, come la descrive Amos Oz, è anche iscritta ad una associazione tedesca intitolata a Goethe. Fuori l’inferno di una terra, la Polonia, invasa, il marito Pomeranz fuggito nei boschi, bombardamenti e devastazioni, mezzi corazzati dappertutto, anche le bandiere sono state sostituite, ma Stefa ha sbarrato le persiane di casa, indignata e continua il suo lavoro di ricerca per il filosofo Heidegger col quale intrattiene un carteggio epistolare. Marito e moglie sono professori e insegnano nello stesso liceo. All’interno delle finestre chiuse nell’appartamento borghese il salotto continua ad ospitare un pianoforte, una credenza, un guerriero africano, e alla parete una stampa di Matisse e una mostruosa testa d’orso che sorveglia Chopin e Schopenhauer i due gatti siamesi. Questo è l’incipit, come si usa dire.

E il dopoguerra, col concretizzarsi della terra d’Israele che i due protagonisti vivono trascorrendo lontani e separati tutti i cambiamenti che ne sono derivati. Alla disperata ricerca di una riunione.

Come uno straniamento di due esseri umani che assistono alla loro partecipata immersione in un contesto in continua evoluzione sradicati per essere radicati nell’oltre.

E’ il linguaggio sommesso e ironico, di Amos Oz. Professore universitario, uomo del kibbuz, contestato autore nel suo Paese per aver cercato di capire e di fare capire soprattutto i diritti degli altri. Assertore del diritto di Israele di esistere ma altrettanto assertore del diritto dei Palestinesi ad uno Stato, uomo di speranza di una convivenza del popolo arabo con quello israeliano.

In due libri “Contro il fanatismo” e “Cari fanatici” stila un “breviario” rivolgendosi ai fanatici, senza odio, senza ira, senza incitamento alla violenza.

E, più avanti, nella stessa poesia si rivolge alla spensieratezza e la elogia:

Questi due sottili volumetti di poche pagine, il secondo una rivisitazione del primo, dovrebbero essere adottati come libri di testo nelle scuole di ogni ordine e grado e religione e razza in tutto il mondo. Perché tutti ne siano edotti qualsiasi strada intraprendano o abbiano intrapresa.

D’un tratto nel folto del bosco è come ripercorrere una strada già fatta con Dino Buzzati, o con altri fantasiosi scrittori dell’est Europa e del nord Europa: la magia di Hansel e Gretel, La vita fa rima con la morte. Titoli alla rinfusa, parole come amate cicatrici                                                                               

P.S. Proprio così, forse è una fortuna, esiste una quantità di libri di Amos Oz da leggere.    Parlarne, scrivere è stata una forzatura. Doverosa. C’è ancora tutto da imparare da Amos Oz. Conoscerlo è una speranza rinviata. Altrove, forse; come nel suo libro o Tra amici con Gli Ebrei e le parole alle radici dell’identità ebraica. E’ bello leggere.

ἐϕημερίς 1 da Macro (Asilo) Roma   

Lun 05/11/2018 - 00:02

di  Tracce

Effemèride, anticamente Libro in cui si registravano gli atti del re giorno per giorno, diario, cronaca, brogliaccio, note dell’inaugurazione insediamento del/i re di Macro Asilo 2018-19 in Roma. Fiutati e amplificati dai maggiori quotidiani, le riviste di settore, molti gli estensori che riempiono i cartacei e quelli on line o solo on line con penne allineate quanto basta, nel consenso, dato l’imprimatur di un vicesindaco corredato di assessorato alla crescita culturale, e qualcuna intinta nell’aceto; non è dato capire se questo aceto è una sorta di scelta o è nel dna o dipende da un particolare corso formativo specialistico o solo un modo per distinguersi, emergere. Notatemi, si erge la penna, io non rientro nel gregge da recinto, io non faccio bee, io non mi uniformo, io sono fuori dal coro e, pertanto, io mi pongo bene in mostra.

Strabiliante novità nel mondo dell’arte, al giorno d’oggi c’è qualcuno che non conosce Michelangelo Pistoletto, ne storpia con volgarità il nome, scrive a chiare lettere che non è nessuno. Subito dopo, però, con precisione parla del come e del perché non dice nulla di nuovo (sempre riferito a Pistoletto) e trascura gli inizi e quella famosa sfera di giornali che egli spingeva avanti a sé negli anni di Torino, sceso dalla sua cabrio rossa, se il ricordo è esatto nel 1967 – e che, a dispetto dell’ignoranza sia nel senso di ignorare per mancanza di conoscenza che nell’intento di non considerazione da parte della signora poiché è una penna femminile a  esprimersi, è entrata nella storia a forza di rotolare in ogni parte del mondo, giungendo fino a Cold Spring e ribattezzata walking sculpture. Forse sarebbe giusto ricordare anche il gruppo Lo zoo. Il tempo non manca e la conoscenza. Dopotutto. Innanzi tutto. E’ storia. Una storia in evoluzione poiché Michelangelo Pistoletto non è un artista cristallizzato.

Un’altra considerazione riguarda la rimasticazione, tutto già visto, già fatto, pensato. Ne consegue, sempre ad avviso della signora, un appiattimento totale del progetto Macro Asilo. E’ troppo presto per sentenziare. Meglio e più saggio andare in giro, assaggiare e saggiare, nel corso di questo esperimento che durerà fino a dicembre 2019; prendere dimestichezza con il labirinto di sale che si inseguono e si compenetrano, alcune con il simbolo # davanti alla denominazione. Occorre molta determinazione per riuscire a venirne a capo, tra laboratori atelier – una miriade – forum, sala incontri, sala lettura, stanza nera, project room, auditorium, palco, quadreria, sala parole, sala cinema, libreria, caffetteria, terrazza, atrio via Nizza, ingresso via Reggio Emilia, occorre una bella resistenza fisica, ma ascensori per pigri e affranti o voli col Tappeto Volante, scarpe prego all’esterno.

Questa scatola magica piena di specchi di artista ti strizza l’occhio facendo girare la testa. Colori e palloncini, parole, molte, video che si annunciano quotidiani su maxi schermo, performance, video-art. Questa è stata la serata del 30 settembre: una fiera dell’arte. Pubblico a oltranza, carrozzine con neonati, artisti innocenti con la I maiuscola, una festa coi fiocchi e fisica full immersion. Occhi sgranati, orecchie dilatate, lingue ben lubrificate in movimento.

Confusione totale, una signora che appoggia la borsa su una scatola facente parte dell’istallazione, per cercare il telefono, digitare, parlare, ascoltare, e muovere nel contempo una mano distrattamente e spostare la scatola che sta in equilibrio su altre scatole, con pregiudizio del baricentro; altri che scrivono su una lavagna ritenendo, di essere giustificati nell’esperimento del partecipare, altri che dipingono in un’altra stanza atelier, vuota momentaneamente di artista, e utilizzano i suoi colori e le sue tele privati.

Rimproveri sussurrati discretamente ai custodi perché lo hanno consentito e perentorie raccomandazioni a fior di labbra affinché non si ripeta mai più.

Perché no. Una zona, nei molti spazi non utilizzati nel Macro, questo è un consiglio, non una critica, una stanza a chi è stato marchiato artista per un giorno da Mario Cuppone, all’ingresso, potrebbe/dovrebbe essere a disposizione in permanenza per dare Asilo a chi si sente chiamato in causa. Se no dove va a finire la progettanda comunicazione del museo ai visitatori, c’è molta carta per tappezzare le pareti, tanto cartone, prima di riciclarlo, risultato di scatole e contenitori o come dice Francesco Di Giovanni “scatoli”. Stuff. Perché no?  Anche se il Curatore ha in mente selezionati artisti professionisti progettati non solo per un giorno e autodefinitisi tali: l’invito è rivolto a chi esercita il mestiere di vivere artista. Ma. Se si pensa un nuovo modo di “assemblare” il pubblico con l’istituzione e sperimentare nel corso dell’anno come renderlo partecipativo, il mezzo, lo strumento ha come fine anche il diletto e il dilettante. In caso contrario si rischia il dialogo tra sordi e solo tra iniziati.

Questa è stata la giostra iniziale, bella e divertente e accattivante. Promesse di innovazione, sarà performance, sarà videoart, sarà installazione, sarà chi sa. Immagini che si sgranano e si deformano, frammenti tagliuzzati e suoni che si rincorrono su schermi e maxischermo, tocchi di note emanati da un pianoforte che svaniscono nell’interesse di una due tre file di appassionati prima di essere soffocati dal clamore risonante di un viavai continuato e vociante. Su e giù per le nuove scale. Gli ascensori, fino alla terrazza.

 

 

Sulle critiche che insistono, architettonicamente parlando, su Macro-Asilo, ci sarà modo di insistere. Un esperimento può e deve essere discusso e messo alla prova. Che esperimento sarebbe, è, se si pone subito senza mezzi termini in posizione di indiscutibilità.

Un vantaggio è palese : per prima cosa, la possibilità di fruire per un periodo prolungato di tempo dal 1 ottobre 2018 al 31 dicembre 2019 – salvo errori ed omissioni – di un museo senza biglietto di ingresso è un fattore di pregio. Inusitato.

Secondo, toccare gli Intangibili, ammantati di autorità e di privilegi e come se la mantengono distaccata dal comune genere respirante quella situazione privilegiata di rispetto la Tribù di Esperti, Docenti universitari o delle varie accademie di Belle Arti, Giornalisti, Scrittori, Musicisti, Specialisti, Specializzati, Specializzandi, al sicuro nel sacro Recinto riservato agli eletti: consanguinei, amici, studenti i cui genitori per lo più si svenano a pagare salate tasse universitarie. La complicità che unisce il DOCENTE allo studente o presunto acquisibile studente, la si respira. Il perfetto sconosciuto viene accolto con riserva, lo si può far attendere, fuori dalla linea di demarcazione territoriale. In bilico tra qui e lì, in una zona tempo-spazio; si può rimandare il turno, addirittura dopo un’attesa prolungata, lo si annulla perché, ubi maior minor cessat, c’è la RAI – Cultura e Media Live, partner del Progetto. Oppure, in un’altra stanza e ce ne sono molte, la conversazione coinvolge ma. Punto fermo. Fino a un certo Punto. Stanza delle Parole, Dizionario, Estetica del Rumore. Assaggiato, esperito e documentato.

 

Nota: viene in mente homo sacer, rivisitato in una personalissima accezione uccidibile e sacrificabile che se ne ride dell’accezione scientifica (se la memoria non inganna uccidibile da chiunque ma insacrificabile) e degli studiosi eminenti e degli studi, delle pubblicazioni dei convegni, delle letture in università eccelse, si lasci posto al giuoco homo sacer che in contraddizione col diritto romano e altro può essere ucciso, fatto scomparire e magari offerto come sacrificale. Ah che soddisfazione. Per mettere tutti, molti, in fila, una interminabile processione di homo sacer, al singolare.

Bien sur : si le space est à /\/ous pourquoi  – vale la pena ripetere – meravigliarsi e criticare l’utilizzo improprio, meglio sarebbe definirlo appropriato in concordanza con la definizione di asilo. Macro Asilo. Se l’intento è quello di dare facoltà di collaborare alla mutazione dell’idea museo, perché trovare scorretto che qualcuno abbia agito in una stanza aperta e corredata di pennelli e tele, in conformità ?  Che poi il suo prodotto artistico per un giorno, sia artistico per sempre rientra o dovrebbe rientrare nel giuoco. Al posto di Michelangelo Pistoletto, oltre all’Auditorium, nel quale purtroppo non era facile trovare posto ed è rimasto solo il conforto di fotografare il suo spirito quando tutto era concluso, al posto di Michelangelo Pistoletto, un giro in incognito… Improbabile?

Una volta deposto il cappello, indossati un paio di occhiali e con una scusa qualsiasi eclissatosi, se fosse stato lui, proprio lui Pistoletto in quella stanza a lasciare un segno nello spirito dell’Asilo? In barba alla mancata sorveglianza? E all’isufficienza di comunicazione.

Lo stesso vale per le cassettiere che occupano una parete della quadreria dai più inteso come un servizio da asporto libri cataloghi sinossi documentazione stampa e come tale fruito. E l’autocandidatura mappatura dell’artista e degli spazi fino al 6 ottobre? Difficile da spiegare e recepire. Chi dove e come può proporsi? E’ artista chi ha il bollo impresso  “Accademia di Belle Arti” et similia? Conservatorio? o anche quello marchiato all’ ingresso da Mauro Cuppone, con segno rosso fuoco destinato a scolorarsi sotto la doccia, per chi è uso a farla e/o ad essere coccolato previa pezza impermeabile sopra – qualcuno l’intento l’ha espresso – nell’euforia del momento. La questione non è retorica se lo spazio è /Vostro. Calma prego. Non è un paradosso.

Non tutti sono in grado di afferrare l’esatto pensiero del Curatore circa il procedimento seguito per immaginare come rivoluzionare concretizzare comunicare rendere partecipativo questo Macro Asilo. Certo se il pensiero fin qui esplicitato è in corso d’opera, non resta che attendere

Per tornare all’autocandidatura, un tavolino con dei moduli di liberatoria da riempire, dove fa bella mostra a volte una macchina fotografica designa la postazione del preposto a immortalare gli aspiranti con il debole per quelli belli e giovani. Comprensibile. Meno, l’autovalutazione del suo ruolo: sta lì perché è il prescelto, perché è bravo. Divertenti siparietti con aspiranti fotografe o attrici in cerca di ruolo e autodefinitesi tali, spesso anelanti un-il book. Normale scambio di indirizzi. Il personaggio, aitante con un berretto da baseball, saltella qua e là e occorre andarlo a cercare e se sei una bella ragazza accorre altrimenti continua la sua conversazione e pare ti faccia una concessione lui, il prescelto dalla direzione per quel compito perché bravo. Ci mancherebbe. Poi magari si scioglie un po’. Un pochino. Un cincino. Sceglie un posto, una situazione, no lì no perché stanno montando il palco, poco prima c’è andato con altra persona, ma sono quasi le 20.00 e forse è stanco, il foyer è enorme e il palco in questione dista sei metri. Restiamo qui. Dica il nome e quello che fa. Tale quale nei film americani in caso di arresto. Il nome va bene. Chi sa come ci resta se l’interessato risponde che fa la statuina davanti ad uno famoso e bravo che scatta clic clic, che poi gli piace come la statuina muove le mani e fa qualche scatto in più con un minimo di interesse che appanna l’aria annoiata. Così va il mondo. Avanti un altro. Ce ne sarebbero molte da raccontare, ma il ritmo della pubblicazione Brogliaccio non è regolare e non è aggiornato quotidianamente. Così quel pomeriggiosera, a parte gli innocenti con la I maiuscola che esibiscono in testa la città di Roma e il cui esponente principe si concede un poco stralunato molto e soprattutto ad amici e alla RAI (perdonabile), la foto è dedicata al più anonimo degli Innocenti

e a Francesco Di Giovanni che ancora si stupisce che qualcuno si stupisca della sua, (ironica) delocalizzazione del museo e della fatica che comporta per il performer, ma può e deve restare negli occhi l’accensione di Io sono Giordano Bruno di Ria Lussi, che merita molto più di un breve accenno.

 

 

 

Brogliaccio  = poche critiche. Ma in Italia la critica è d’obbligo per naturale predisposizione, perché a parlare siamo tutti buoni e la rete lo consente.                                                                                                                  Una volta presa la decisione, si dà il via: solo distinguo selezionati e pensati e digeriti nella maniera più concreta e biologica possibile nel corso di una settimana, di un mese, chi sa, senza cadenza regolare come si usa nei blog e nelle pagine per non assoggettarsi ad obblighi di legge. Note, fogli sparsi di quelli bucherellati in cima strappati a un notes, a un taccuino, una cosa del tipo. La macchina, la sfera, e il circo al seguito al via, andiamo a incominciare qui vedrete le cose meno viste udrete suoni poco sentiti, le quasi meraviglie delle meraviglie. Per prima cosa diamo a tutti quanti una visione d’insieme, un orecchio a commenti quali l’arciabusato utilizzato LASCIAMOLI LAVORARE, orribile  MAIUSCOLETTATO condannato ad oltranza dai cruschettari. Domanda: non sono più appropriate le maiuscole degli urli sovrapposti negli approfondimenti dovunque effettuati? Qui, all’Asilo, nei dopo lectio, conversazioni, autoritratti gli urli non ci sono. Per mancanza di sgarbi. Scarsità di pubblico. (Al momento, con l’eccezione della lectio di Michelangelo Pistoletto). Avviene, nel prosieguo una conversazione di pregio da caffè Greco, Rosati, Baretto, Quadri, Aragno, Caffé delle Giubbe Rosse quelli vecchi o che non esistono più salvo errore od omissione. Oppure revival appassionato degli anni dal 68 al 77 da parte di Carlo Infante per la riedizione del testo di Maurizio Calvesi, Avanguardie di massa. Indiani metropolitani in una Roma viva centro di idee.

Se nel dibattito dopo lectio qualcuno cerca di intrufolarsi, il microfono passa ma poi si ferma nell’ambito aristocratico delle prime file. E alla fine la conversazione termina con una passeggiata proposta per il museo fra il relatore il curatore e gli iniziati. o si va a far visita e numero ai colleghi degli altri hashtagspazi. La coperta è stretta, come si usa dire.

La fine con dedica all’artista che molti romani conoscono perché espone le sue opere sotto il cielo di Roma: Stefano Delle Chiaie. Un richiamo a chi si avvicina al percorso circolare che si snoda nel foyer formato da basi che sostengono gli oggetti, qui sottotono ma irrispettosi e quotidiani in Piazza Augusto Imperatore sul parapetto che sostiene la cancellata. Due o tre parole giungono all’orecchio e si fanno strada prima di comprendere che la voce appartiene a un garbato signore, in abito scuro, bel viso sereno e barba bianca, occhi chiari e un sorriso ironico. Per una settimana ha asilo al Macro Asilo, al chiuso. Meritevole della sua bella conferenza stampa presentato da quattro persone autorevoli. Ha trascorso così tutta la vita, costruendo le sue opere, esponendole nel centro storico di Roma che raggiunge ogni giorno, da Sgurgola tramite treno. Quello è l’artista, soggiunge, mostrando la copertina di un libro che lo ritrae. E ancora: il libro è in libreria, lo può trovare lì. Una indicazione, nient’altro.

La cartina al tornasole del Brogliaccio, oggi, finisce qui. Prossimo appuntamento per tentare di riunire le note di un mese, a fine ottobre. Che la crescita culturale continui.

 

 

Se questa è RomApriti cielo 

Lun 08/10/2018 - 00:04

di Tracce

 

E’ comprensibile l’attenzione puntata in Roma e in Italia su questioni molto importanti la stampa la controstampa gli approfondimenti tv i contrapprofondimenti tv conditi con politici e contropolitici i feissbuchiani e i fessbuchiani i cinguettanti e i gamberocinguettanti alias quelli che cinguettano fino ad arrochirsi e devono ritornare indietro per cercare e ritrovare e rinnovare il cinguettio e, ultimissimo grido, nientedimenoche i cenanti, quelli che cenano quelli che invitano quelli che rifiutano quelli che “riluttano”.  L’abitudine è tale che è stato abolito ogni tipo di punteggiatura per non parlare di grammatica e di sintassi in onore dello sperimentalismo, del sostituzionalismo k x ch  tvb x ti voglio bene  cmq x comunque  x sta per. Telegrafico anche se al giorno d’oggi nessuno invia più telegrammi c’è uozap telegram instagram, lo usano solo in tv per invitare gli invitati a essere concisi con un gesto strizzante della mano. Figurarsi. Parlare stridono tutti, a valanga, nella realtà e nella rete. Stridio a oltranza, sonoro e per immagini. Figurarsi. La sciatteria la volgarità l’eloquio crasso non fruiscono di abbreviazioni. Figurarsi. E tre.

Di seguito una sequenza telegrafica di immagini realizzata tramite fotocamera di un cellulare di assoluta men che media estrazione, non è di quelli che vengono esibiti dal lato ortofrutticolo preso a morsi, et similia. E’ un cellulare che serve per telefonare e cogliere l’attimo fuggente.

Dialogo fra una persona con zainetto a spalla e un’altra con cellulare in mano davanti a un ammasso di foglie e rami putrescenti circondati da tempo immemorabile da nastri di plastica rosso/bianco/giallo ormai a brandelli e relativo cartello di avviso per la sicurezza. Esclusi analfabeti e/o ipovedenti.

 

Perché ?

 

Farlo? Così. Un album a peritura memoria.

Imperitura

Peritura : non dura più di un giorno o due in rete.

Ne ho di belle anch’io.

Siamo in due.

Siamo ridotti male.

Loro più di noi. (gesto della mano libera, il cellulare è nell’altra) verso il tronco spezzato

 

 

L’abbondanza non manca.

 

 

Altre frasi :

Questo tronco copre astutamente una voragine.

E’ sempre lo stesso in tempi diversi.

Certo che no. Sono strade diverse, nei pressi di Piazza Ledro, dello stesso quartiere o limitrofo, Via G. B. De Rossi, Via San Marino, alberi diversi, stesso destino dopo un po’ di vento o un normale temporale, definito dalla stampa bomba d’acqua.

Il bello, se di bello qui si ragiona, è che gli alberi caduti non sono rimpiazzati. In via Nomentana ci sono ampie zone prive di platani, crollati da tempo con qualche raro tentativo di rinascita dalle radici antiche in modo spontaneo.

Un tempo c’era il servizio giardini del Comune.

Un tempo se qualcuno voleva alberi per la sua strada li otteneva sempre dal Comune.

C’è ancora un Comune?

C’è un sindaco.

C’è un sindaco ?

E’ pur stato eletto. Ho dubbi sulla rielezione. Ha giocato sulla speranza di cambio al tempo delle elezioni.

Guardi qua, questa è l’area intorno alla stazione della metro di S.Agnese-Annibaliano. Gliene mostro una selezione.

 

 

E’ stata progettata e realizzata come area verde con grandi aiuole, arbusti, panchine, ampi spiazzi per i bambini.

In effetti il verde non manca.

Qui c’è un gabinetto spontaneo come la vegetazione.

 

 

All’aria aperta e, quando piove, la possibilità reale e concreta di farsi una doccia all’ ingresso della metro, come quando si entra in piscina, anch’essa spontanea. In foto non si vede bene, ma in effetti ci si lavano pure i piedi, sempre prima di entrare, come nelle moschee. Usi multietnici. Il razzismo, pertanto, non esiste. Tutte voci. Questo è il vero aspetto dell’accoglienza, uguale per tutti.

 

 

Sullo sfondo oltre le insegne capolinea degli autobus può intravedere il contorno del complesso della Basilica di S. Agnese, il Mausoleo di Santa Costanza, l’ingresso alle Catacombe, a un passo da questo verdeggiare lussureggiante anche se arso dal sole.

 

 

Dall’altra parte c’è Corso Trieste. E qui viene il bello. Questa è nuova nella cronaca quotidiana dell’ingegno. Appartamenti nell’incavo delle vetrine, quelli con veranda sotto i ponti del Tevere, cucine all’aperto verso la Stazione Termini con camion-cucina etnica, cosa vecchia. C’è un cambiamento.

Ognuno si comporta a suo criterio. Ognuno, posto lo stato di assoluta discarica, si serve della cosa pubblica, come in magazzino outlet (?) e sposta la su citata cosa pubblica a piacere. Nell’aiuola centrale di Corso Trieste all’ombra dei pini superstiti sono situate panchine che si fronteggiano qua e là. In qualche qua e in altri là non si fronteggiano più. Lì, per esempio. Vede, a destra, manca. E sono belle pesanti e assicurate al suolo. Manca. Una panchina.

 

 

Adesso uno si mette a rubare anche le panchine.  Non ci posso credere.

Non l’ha rubata. Solo spostata. Un pochettino. Le ha fatto attraversare una parte di Corso Trieste, sulle strisce, secondo regolamento comunale o legge, non so e…

 

 

Oplà eccola risistemata.

 

Risalendo un breve tratto di Via Nomentana, cinque minuti a piedi, troviamo Villa Torlonia e Villa Paganini. C’era anche un’altra Villa, dico c’era perché da anni è stata incorporata in una delle molte aree universitarie dell’Università La Sapienza.

Bella pensata.

Condivido.

Villa Paganini:Una villa antica che risale al ’500, ristrutturata nel 1700; i viali sono intitolati ai testimoni di giustizia, (Rita Atria) e ai giudici morti per aver condotto inchieste devastanti per la mafia, estesa a tutti coloro morti nel corso della lotta a tutte le mafie  –  Saveria Antiochia Peppino Impastato Pio La Torre Antonino Caponnetto Marco Biagi Massimo D’Antona Giorgio Ambrosoli Boris Giuliano, Ilaria Alpi e Miran Hrovatin  – Il Casino Nobile trasformato in scuola sfregiando e annientando le sue nobili origini architettoniche, frazionato in 48 vani, un comprensorio di piccoli prefabbricati che ospitano la dépendance di un plesso scolastico, area ludica per cani, postiletto all’aperto per senzacasa, oasi intervallo pranzo per impiegati. Priva di qualsiasi sorveglianza e recintata. Segno di resa. Di recente chiusa per ispezione stabilità piante. Riaperta dopo l’abbattimento di una decina di alberi ad alto fusto. Non saranno mai più sostituiti. Non con questa Giunta. Una villa ricca di storia e di arte. Oggetto di uno studio degli studenti di un liceo del quartiere e sostenuta da un’associazione impegnata a portare avanti la legalità. C’è tuttavia un errore madornale : il monumento ai Caduti dei quartieri Nomentano Salario della Prima Guerra Mondiale (opera dello scultore Zocchi) fu spostato nel dopo seconda guerra mondiale, in occasione della risistemazione della Villa, da Piazza Alessandria che era stata la sua istallazione primaria. Questo errore è ribadito anche nel sito istituzionale di Roma Capitale. Sarebbe ora di rettificare. Negli anni trenta nel corso di famose insulse inutili campagne pubblicitarie fasciste, oro alla patria, ferro alla patria, fu demolita l’antica recinzione ripristinata nel 2004 durante la Giunta Veltroni.

Villa Torlonia: sono stati effettuati restauri, e certi manufatti sono diventati musei. Ma alcuni restauri sono stati compiuti al 70 per cento e, non si sa come e perché, da molti anni sono rimasti incompiuti, recintati, in progressivo sfacelo. Ulteriore segno di resa e di sperpero di fondi.

Oltre al bunker costruito in epoca fascista, opera ridicola quanto a potenzialità di riparo, esisteva un maneggio; i Torlonia, avevano costruito dei casotti dai quali partivano i cavalli e si effettuavano piccole gare ippiche. Poi la villa fu offerta a Mussolini che l’ accettò in uso abitazione, nel dopoguerra se ne impadronirono gli inglesi e ne fecero un accampamento con le inevitabili conseguenze, forse contribuirono anche gli americani. Si lasciarono alle spalle una zona devastata. Cingolati e tende si erano comportati a dovere. Risultato: tutto chiuso per decenni. Esisteva un teatro, la Limonaia, ma quando i liberatori se ne andarono rimase un palcoscenico sfondato, assi marcite e divelte, tutto il foyer a vetri in pezzi, sa com’è la gente è iconoclasta per carattere e i liberatori non hanno fatto eccezione. E poi i nativi – quod non fecerunt Barbari fecerunt …Il restauro del teatro e dell’intero comprensorio è andato avanti a singhiozzo per decenni, ma il singhiozzo è diventato cronico. La Limonaia teatro (rare sono state, a ripristino avvenuto, le rappresentazioni) è sistemata e comprende una caffetteria, dove ai cani è concesso entrare e devo dire che si comportano bene, una ludoteca e spazio all’aperto all’ombra degli alberi che sono ancora numerosi salvo qualche crollo, un meraviglioso cedro del Libano, palme ammalate …

Sulla strada, intitolata ad Alessandro Torlonia, che la fiancheggia sono rimasti resti dei lavori effettuati.

 

Parcheggiati da anni ormai, chi sa di quale giunta sono eredi.

 

Verso piazza Bologna, l’ultimo pezzo di via Ravenna racchiude un altro gioiello debitamente recintato coi suoi alberi caduti, gli sterpi, resti di panchine, tetti sfondati, marcescente in tutto il suo splendore. Un parco giochi pieno di alberi e di verde e, se non ricordo male, c’era una scuola materna o qualcosa del genere, è passato troppo tempo. Anche qui esisteva una caffetteria.

 

 

Le giunte si susseguono dopo prolungate permanenze e pensano solo a rinfacciarsi ed enumerare i danni ereditati senza mettere mano a ripari, manutenzioni, progetti, progressi; pardon i progressi ci sono, in peggio, sempre peggio. E i mezzi di trasporto pubblico? vanno a fuoco quotidianamente, non fanno notizia nessuno ne parla, oppure si fermano con relativo triangolo sul retro, quelli che restano girano con folcloristici rettangoli di carta fermati da nastro adesivo e il numero identificativo della linea qualche volta anche stampato, la metro – vale per tutte l’esempio della relativamente recente stazione S. Agnese/Annibaliano nel quartiere Trieste e le strade, quartiere Bologna, Africano (da lungo tempo non esiste razzismo a Roma) Via Capodistria, Via Pola, via Corsica, Via Appennini – che gode di maggiori rattoppi dovuti al fatto di un ingresso laterale della sede storica della LUISS Libera Università degli Studi Sociali – a caso, una per tutte Via San Marino.

SPQR, significa : SenatusPopulusQue Romanus. Emblematico. Per quanto attiene al Senatus.

 

 

Sullo sfondo una mamma, un triciclo che presuppone un/a bambino/a in questa strada, Via Capodistria per la precisione, e nel caso di persona diversamente abile che deve percorrere un tratto di marciapiede per poter trovare uno spazio per accedere alla strada con il suo trasporto a motore? Via Pola ha migliori agganci, dispone dell’ingresso principale della LUISS, la Libera Università degli Studi Sociali e la rattoppano con maggiore frequenza. Annuale. Non sempre.

Qui non si tratta di banlieue, periferia abbandonata in stato molto più decadente soprattutto dal punto di vista sociale, qui siamo nel centro di Roma, Via Capodistria, è l’ultima strada del centro storico, questo forse il sindaco e la sua giunta non lo sanno.

L’esempio vale per riflettere, signor Sindaco, con allegata Giunta posto che, da soli, non riflettete. Si prenda una pausa, signor Sindaco e allegata Giunta, dalle polemiche insulse e dai battibecchi da asilo infantile, anzi asilo nido. Lei bellamente ignora che se non ci fosse qualche extracomunitario munito di arnesi di fortuna a ripulire le strade, i cittadini dovrebbero ricorrere alle capre. Come ha, con sagace intuito, suggerito qualcuno della su detta giunta, facendo copia e incolla dalla rete magnificante una qualche città della Germania. Da aggiungere gli italianissimi cinghiali i quali, se non infastiditi, cercano solo cibo per lo più vegetale.

Da perfetto Sindaco, lontano dai problemi minori (?) a volte forse Le passa per la mente che c’è chi non è soddisfatto di questo servizio extra–comunitario di minimo aggravio per i residenti di passaggio, oberati da un mondo di tasse destinate a. E rifiuta in toto insultando e cacciando via i creativi operatori. Magari chiamerà anche la polizia, non indossa il nome di un cantante famoso, di un attore o di un politico chi pulisce la strada e magari sarà arrestato o trattenuto o identificato come clandestino. Con le conseguenze del caso. E’ la legge, su questo non ci piove. Lo sperimentò sulla sua pelle Danilo Dolci, con lo sciopero al contrario. Si chiede chi è Danilo Dolci signor sindaco ?

Si diletti, Signor Sindaco con questo angolo delle delizie ViaTorlonia-Via G.B. De Rossi.

 

 

Chi sa se si tratta di inciviltà. Frutto e conseguenza della rabbia per una inadeguata o latitante raccolta rifiuti? Anche sì. Anche no.

E’ stolto o rassegnato o indefinibile arrendersi e ringraziare per un servizio a buon mercato  (ma certamente un surplus, visto il fior di tasse versate e riscosse), un servizio extracomunitario in essere in Via Corsica come in molte altre strade di Roma.  E, tuttavia, sarebbe più dignitoso e onorevole per i romani intraprendere una class action, in italiano azione di classe, azione comune, nei riguardi di una giunta poco onorevole, comunconsiglieresca che ricorda il termine canagliesca. Lo ricorda soltanto come rima, s’intende. Maliziosi a interpretare in modo altro.

 

 

E per finire la dedica all’Extracomunitario Ignoto il quale, recita un cartello davanti ad un barattolo posto su una scatola di cartone, “non ha lavoro e vuole quanto basta per vivere aiutando a pulire le vostre strade”. Qualche cittadino rassegnato, stanco di inciampare in ogni sorta di piccolo e grande ostacolo, arreso e pur tuttavia veemente e iracondo vs Giunta con allegato Sindaco di Roma lascia un contributo, come giusto che sia e dice GRAZIE. Pensi al rinnovo del mandato, Sindaco con giunta allegata. Pensi. Non si preoccupi troppo. Al peggio non c’è mai fine. Con ottimismo.

l’Impatto e l’Oltre – Alberto Bragaglia   Futurismo e Futuristi

Lun 03/09/2018 - 00:02

di Tracce

Fuochi

Questa mostra, dedicata ad Alberto Bragaglia, nasce in anni lontani, quando il Futurismo non era stato sdoganato e  portava impresso il marchio infamante fascista e, pertanto, privo di qualsiasi valore.

Catalogo Venezia  Palazzo Grassi 1986

La lucida disamina del Futurismo trae origine dalla grande mostra allestita nel 1986 in Venezia : curatore Pontus Hulten;  36 personalità  internazionali hanno analizzato il Futurismo nei suoi molteplici aspetti e illustrato l’influenza esercitata nella cultura mondiale. Occorre solo rendersi conto della sua genesi. Del perché e del come sia avvenuta in un periodo circoscritto tra il 1880 e il 1909 – la pubblicazione da parte di F.T. Marinetti del Manifesto su Le Figaro, ma già apparso su diversi giornali di provincia italiani – con la proclamazione di un evento in fieri, anzi non ancora realizzato. Ci voleva spavalderia e coraggio e una buona dose di incoscienza.

Il FUTURISMO 1909 – 1918 : ANNI ‘10  IL DINAMISMO PLASTICO – FUTURISMI 1918 – 1930 : ANNI ‘20 L’ARTE MECCANICA  ANNI ‘30 L’AEROPITTURA   e, per finire, L’EREDITA’ DEL FUTURISMO

Pontus Hulten  lo determina con esattezza senza cedimenti e o allargamenti nel catalogo, enorme, esaustivo, una bibbia, che accompagna l’esposizione di Palazzo Grassi nel 1986. Circa ventisei anni prima, nel 1960, si tiene una Mostra Storica del Futurismo in coincidenza con la XXX Biennale d’Arte di Venezia. Hulten, tuttavia, curatore della manifestazione di Palazzo Grassi, ritiene molto più importante quella allestita nel 1981 in Philadelphia, presso il Museo delle Belle Arti depositaria di un catalogo documento fra i migliori sul movimento. L’unica ad attribuirgli una identità internazionale e di grande impatto nella storia a venire, a differenza di altre esposizioni che identificano il Futurismo come un movimento italiano, un fenomeno senza ripercussioni altrove.

La mostra di Palazzo Grassi lo colloca nella sua interezza culturale internazionale in tutti i suoi aspetti: pittura, scultura, letteratura, architettura, musica, fotografia, tipografia, cinema, moda e arredamento, pubblicità, artigianato, perfino cucina, sul modello del Barocco, Modello fino a quel momento unico. Tra il 1909 e il 1918 si configura il periodo più intenso del Futurismo. Il periodo nel quale si contrappongono in Europa e fuori dai suoi confini le fermentazioni in grado di sovvertire quanto già verificatosi nel mondo dell’arte per cercare trovare intraprendere nuove strade.

E’ difficile rendersi conto dell’impatto che i nuovi movimenti hanno nel secolo, ma l’Oltre si manifesta non solo nell’attenzione al sociale, nella velocità, nel progresso che profeticamente mette la macchina al di sopra dell’uomo pronta a divorarlo, ma nel fatto che l’immagine si manifesta in tutta la sua potenza per acquisire supremazia sulla cultura scritta. E’ un’arte visiva che segue l’andamento del meccanismo che si verifica sulla retina.

G.Pellizza da Volpedo, Auto al passo del Penice

 

 

Ora che il contemporaneo nel quale siamo immersi ci annega nelle immagini a scapito della cultura letteraria.

Armiro Yaria, L’ingranaggio

 

Tuttavia, la pittura futurista è esente dall’irruenza violenta aggressiva scalpitante che erompe dai testi, dal modo di agire, ad es. le serate, di Marinetti, Govoni e anche del primo Carrà. Guerra pittura. La velocità dell’evoluzione che caratterizza il secolo è impressionanti; il modello di architettura di Sant’Elia ha influito sui maggiori architetti internazionali di epoca successiva.

Il Futurismo è sociale e politico, inventivo, il Cubismo, il maggiore movimento francese nato in parallelo, è elitario, contemplativo. La guerra sola igiene del mondo lascia un quadro impressionante spezzato e dilapidato moralmente e concretamente. Ma non è quel bagno di sangue, quella distruzione alla base del pensiero intellettuale marinettiano. Le sorprendenti intuizioni sulla dinamicità del progresso tecnico e scientifico portano Marinetti ad interrogarsi riguardo ad una realtà profetizzata, e forse sarebbe rimasto sbalordito dall’entità dinamica di realizzazione della stessa. Se si pone attenzione all’opera Zang TumbTumb ne risulta una lucida esposizione di guerra e genocidi che ci riportano all’attualità, a resoconti di cecità di classi politiche, militari e istituzionali che giocano coi destini di popoli e nazioni annegando tutto nel sangue. Così come se le pone Pirandello nel suo Taccuini di Serafino Gubbio operatore, col mettere a nudo traumi e conflittualità progressive tra una mano umana e una manovella meccanica adoprate per il medesimo fine. D’Annunzio vate di aeromobile e automobile – all’inizio rigorosamente sostantivo maschile – insuperabile nella condivisione del magico staccarsi dal suolo o del dominio su di esso con la saettante velocità finisce per bloccarsi sulla tragicità dell’Oltre, quell’Oltre che nella sua letteratura sono i sentimenti portati all’estremo. Forse che sì Forse che no. Che cosa dire delle imponenti giraffe metalliche ipotizzate da F.T.Marinetti e del suo Mafarka disegnato in sessualità “Oltre” col suo pene gigantesco che lo fa reo di oscenità     ( ma che ne è dell’Ulisse di Joyce o più tardi di Io e lui di Moravia ) nello sconvolgimento generale e lo induce successivamente ad una riedizione “purgata” fino a che, nel prosieguo degli anni, Mafarka il Futurista tornerà alla prima stesura. La provocazione delle serate in tutta Italia disegna una mappa estesa, dove ortaggi e frutta a volontà dalla platea incoronano e incorniciano Marinetti che ringrazia imperturbabile e nel suo solito modo se ne vanta e avvantaggia, senza battere ciglio, illimitato nel trasporre parole e parole indicando la punteggiatura come suono in libertà. In effetti lo scontro platea palco si svolge nel modo plastico sonoro dinamico veloce in divenire che si prefigge Marinetti. Primo esempio di smart e flash mob, teatro di strada ? Il Futurismo e i Futuristi si propongono, in effetti, come apripista validi e lucidi.

I Futurismi sono quelli che si originano tra il 1909 e il 1930.  Oltre queste date non se ne verificano e non ve ne sono altri. Questo per quanto è relativo alla storia. Il Futurismo e i Futurismi si svolgono in questo arco di tempo. Punto e basta. Nascono dai pittori divisionisti italiani che talvolta, al contrario di quelli francesi, si pongono come temi precipui il sociale e ancor prima operano gli artisti della Scapigliatura milanese attenta al sorgere, negli anni dell’800, delle industrie, dell’attenzione alle tecniche, della potabilità dell’acqua e dell’elettricità in una città e nel suo entroterra, Milano, che vive i problemi del crescere, e quelli dell’integrazione delle sue realtà suburbane. Sorgono banche che costituiranno il nerbo del sistema bancario. Si costruiscono strade e linee ferroviarie che congiungono la città alle capitali estere. I protagonisti della Scapigliatura descrivono temi sociali, sono anche perseguiti dalla polizia come incitatori alle rivolte di classe, illustrano con opere di grandi dimensioni l’epopea della crescita. Sorge addirittura un posto per aiutare le donne in difficoltà e s’innesta nella storia, pilastro edificante, il “Quarto stato” e “Automobile al passo del Penice” di Pellizza da Volpedo che influenzeranno Boccioni e Russolo e Carrà. Va ricordato, peraltro, che la Città che sale di Boccioni (primo titolo Il lavoro), è ambientata (M. Calvesi) in Roma non appena edificato il Ponte del Risorgimento. Le pennellate dei divisionisti sono diverse da quelle degli artisti d’oltralpe e la scienza e la tecnica e la chimica fanno preferire colori puri accostati ai complementari, piuttosto che l’uso della mescola sulla tavolozza delle sostanze coloranti. Ne risulta una pittura più vivace, brillante e che meno si presta all’ossidazione. I pittori s’incontrano e si scontrano, partecipano al Futurismo per poi separarsene, si aggregano e si disgregano, continuano a sentirne l’influenza come nel caso dei Russi. Sono, comunque due i grandi movimenti europei, il Cubismo, in Francia, e il Futurismo, in Italia. che improntano il secolo e costituiscono il nerbo di tutte le avanguardie.

Nel corso dell’estate palermitana che vede Palermo Capitale della Cultura 2018, sono in mostra presso gli Archivi opere di Alberto Bragaglia di stirpe bragagliesca, tutte di collezione privata, Roma.

Schivo, dedito all’insegnamento e alla filosofia, è molto diverso dai fratelli Anton Giulio, Arturo e Carlo Ludovico. Anton Giulio, il maggiore, eclettico troppo dotato per poter spartire onori con altri ingegni, si accosta al Futurismo e se ne discosta, pur mantenendo sempre profondi contatti, concentrandosi su teatro, cinema e fotografia con i fratelli Arturo e Carlo Ludovico.  Alberto espone una volta presso il fratello e in pochissime altre collettive sempre in Roma. La pittura è una faccenda della quale è geloso e la condivide con pochi. E’ per questo motivo che questo artista amico, giovanissimo, di Boccioni, non è venuto alla ribalta insieme ad altri. Anton Giulio gli è debitore di molti concetti da lui teorizzati. I trattati di Policromia Spaziale Astratta e Panplastica, qui esposti, insieme a molti altri testimoniano l’opera letteraria, mentre la numerosa produzione artistica rimane per decenni confinata nel suo studio. Nel 1974, proprio per approfondire l’analisi sui protagonisti del Futurismo il suo nome è confermato da quanto appreso negli anni ’60 da Armiro Yaria e dai critici che l’hanno apprezzato. Fogli meravigliosi li definisce il critico d’arte Toni Bonavita che nella sua veste di editore, cura la ristampa di Policromia Spaziale Astratta, e il suo studio è oggetto di ulteriori visite e conversazioni per approfondire la visione precisa della sua opera. Così come da giovane, da anziano non ha desiderio necessità voglia di esporre le sue opere. E’ stata sufficiente l’esposizione al Bragaglia Fuori Commercio di Anton Giulio, al manifestarsi dei sintomi del Futurismo. Dalla frequentazione di Boccioni ha messo a frutto consigli e apprezzamenti e intrattenuto un ottimo rapporto. Ha vissuto il Futurismo dal suo studio come intellettuale e artista, cedendo al lato innovativo mescolato a un personale intimismo, quasi alla francese, pur mantenendo negli scritti e nelle opere spirito di avanguardia.

Critici e storici dell’arte del calibro di  Virgilio Guzzi, Lorenza Trucchi, Sandra Orienti, Valerio Mariani, Carlo Ludovico Ragghianti, Soprani, tra gli altri, hanno scritto della sua produzione artistica sui maggiori quotidiani nazionali, quando espone la sua prima antologica presso hermes Studio d’Arte in Roma nel 1974.

Democrazia Futurista con dedica autografa di F.T: Marinetti a Depero

 

In occasione del suo ottantesimo compleanno, vista la mole dei suoi lavori, ne sono esposti altri 80 come i suoi anni, sempre presso “hermes studio d’arte”; le mostre si sono susseguite, Frosinone, sua città natale, la provincia di Cosenza, la Sicilia e Cefalù, l’università di Rende, dopo la sua scomparsa, e un’altra grande antologica all’Isola Borromeo e, di nuovo, la Sicilia e Palermo – 4 maggio 8 giugno 2018 – presso l’archivio Comunale.

Troviamo l’Oltre nel “foglio” Apparecchiature Fantastiche (di Città Avveniriste Immaginarie), concreto e reale prospetto della città oltre il domani, e, in altri “fogli”, dell’uomo che sostiene la ripetizione elettrica di onde geometriche e labirintiche, di ali che dilatano pareti irradiando una sfera di calore, in uno schema frantumato di spazi abitativi o in morbide onde che si avvolgono, fanali, gru in fila, il geometrico incontra la voluta  i colori possono cozzare fra di loro o creare serie di sfumature o fronteggiarsi jn modo dinamico. La pennellata è magra sia che si tratti di olio o di tempera.

Vortice

 

E’ classicamente futurista nel cogliere la dinamicità del movimento la cui visione avviene come nella retina. Scatto fotografico dopo scatto fotografico alla stregua della percezione dell’occhio umano.

Non è visione immobile è dinamismo evolutivo concretamente immerso, se pure a suo modo, nella vita.  Il domani è oggi, corpi aerei nello spazio, da una parte lo slancio irrefrenabile con i bianchi smorzati e le linee più scure, tutto trasuda energia; dall’altra oltre l’onda d’urto l’atmosfera trova l’impatto rarefatto che risiede nell’atto e nel fatto e sfuma nell’Oltre ignoto.

Così appariva nel ottimo allestimento in Cefalù nel 2009.

 

 

Affiancati, nella terra di mezzo, esponenti del secondo futurismo torinese, un cenno breve, appena uno sguardo su Armiro Yaria nato in Calabria e vissuto in Torino, e in Roma, amico di Depero e Marasco;  Pippo Oriani, cosmopolita vissuto per lungo tempo in Parigi  amico di Severini e Soffici; Baccio Maria Bacci, toscanaccio essenziale, vate del Caffè delle Giubbe Rosse, Firenze; Antonio Marasco, calabrese di nascita, denominato da Marinetti, futurista di transito, amico di Boccioni e Balla, con Marinetti in Russia conosce Malevic, Puni, Tatin e Majakovskij. Passa dal dinamismo plastico all’aeropittura, al cubofuturismo, scrive per Lacerba, disegna e invia bozzetti, è presente nelle più importanti esposizioni futuriste; molto spesso in Germania : a Duesseldorf e Berlino gli viene dedicato ampio spazio culturale ed espositivo. Nel 1927 partecipa alla Mostra d’Arte Nazionale Futurista di Palermo.

Le 16 vetrine hanno ospitato una vasta documentazione cartacea coeva da collezione privata, Roma, libri autografati e numeri rari di riviste quali Lacerba, dove sono pubblicati tutti i manifesti e gli spartiti musicali degli aderenti, abiti d’epoca, costumi  di scena, una istallazione teatrale, gioielli d’epoca, sempre di collezione privata, Roma. In due vetrine documenti marinettiani del Fondo De Maria per concessione della Biblioteca Casa Professa di Palermo ad opera Dr. Guarneri e Dr. Tagliavia.

Baccio Maria Bacci, Ballerina

 

Antonio Marasco, Vento perverso

Mario Sironi, La porta che si apre

Pippo Oriani, Images

 

Rientra in questa mostra, in precedenza illustrata, una scultura di Ugo Fontana, marinaio d’alta montagna, come lo definisce Vittore Querel, poiché ha trascorso in Marina gran parte della giovinezza, nato in Bassano del Grappa, vissuto in Roma e in Sicilia, giornalista editore di grafica d’arte, scultore che espone un Omaggio a Prampolini in tondino di ferro verniciato, affiancato da un altro scultore Giuseppe Lo Presti, che si avvale di radici di legno di ulivo, nato in Cefalù vissuto a Roma negli anni 70/80. Tratta il legno per estrarre lo spirito dalla forma. Strappa alla terra le radici con le mani e l’aiuto di una vanga, vuole cogliere onde di energia dalla materia.

 

Agli Archivi Comunali in Palermo nel 2018 le opere di Bragaglia hanno lottato con le limitate possibilità espositive per esprimere il loro reale prezioso valore. Faldoni e altro, inamovibili, aggeggi antincendio il tutto avvolto da una pesante burocrazia si sono adoperati per reprimere il fascino delle opere insieme a chiusure improvvise inaspettate della sala per far posto a corsi formativi, convegni e altro, che non erano in programma. E che hanno escluso visitatori, venuti da fuori, dalla visita.

Il catalogo è scaricabile in pdf sul sito www.ivastasidivicolosaraceni.it.

 

Spiritosi irriverenti ironici smart mob, in perfetta sintonia con il tema, hanno vivacizzato l’evento durante e in concomitanza con il periodo espositivo. Avvenuti a sorpresa nell’epoca della riproducibilità tecnico/tecnologica dell’arte hanno avuto luogo anch’essi senza preavviso e, questi sì, di cinico e satirico sapore.

 

L'articolo l’Impatto e l’Oltre – Alberto Bragaglia   Futurismo e Futuristi proviene da Ancora Fischia il Vento.

Dopo Hiroshima : Nagasaki   (Claude Eatherly : alla ricerca del sorriso perduto)  

Gio 09/08/2018 - 00:04

di Tracce

“HO VOLATO su Hiroshima per 15 minuti per studiare i gruppi di nuvole; il vento le spingeva allontanandole dalla città. Mi pareva il tempo e il luogo ideale, così trasmisi il messaggio in codice e mi allontanai in fretta come mi era stato detto, ma non abbastanza. La potenza della bomba mi terrorizzò. Hiroshima era sparita dentro una nube gialla.”

Al momento della terrificante visione Claude Eatherly ancora non sa che una seconda bomba, potenziata, infame, sarebbe stata gettata su Nagasaki.

Il Giappone è ormai alle corde pronto ad arrendersi, ma non c’è tempo: tre giorni dopo la seconda bomba.

“… siamo pronti a distruggere completamente ogni attività produttiva nipponica che non sia sotterranea e a distruggere in modo assoluto la capacità del Giappone di combattere”       è Truman a parlare, forte del sistema industriale colossale alle sue spalle, una volta conclusa la ricerca scientifica e pronta l’atomica. E’ iniziata l’era dell’arma atomica impiegata in un conflitto  bellico. Qui, tuttavia, si tratta di un esperimento più che di una missione :  un “esperimento” stabilito per il 9 agosto e Bockstar, l’aereo che sgancerà la bomba, questa volta al plutonio e potenziata rispetto a quella di Hiroshima (20 kiloton), si chiama allegramente  Grassone – Fat Man. Ai comandi di Bokstar il maggiore Charles Sweeney, vicecomandante Fred Olivi. Questa volta non tutto va liscio, come in tutti gli esperimenti  e si rischia perfino la vita; il lancio avviene in condizioni di visibilità incerta: è come lanciare un dado la scelta fra Kokura e Nagasaki. Questa si questa no, questa è più nitida rispetta a quest’altra : Kokura no Nagasaki si. Ore11:02 del 9 agosto 1945 Nagasaki. Anche se il lancio non colpisce il centro della città ma la zona industriale, il disastro, data la maggior potenza dell’ordigno, è superiore a quello prodotto a Hiroshima. Bagliore intollerabile agli occhi, calore ustionante, densa nube giallastra, pioggia radioattiva sulla popolazione colta senza nessuna possibilità in un parossismo di terrore, annientamento. Non c’è proprio tempo di avvertire lo spasimo del calore, la gente scompare, vetrificata, l’ombra dura un attimo di più del corpo scomparso. Le lacrime asciugate prima di finire di scorrere.  Muoiono altri 70.000 migliaio più migliaio meno che cosa importa, si tratta solo di numeri che aumenteranno con l’aumentare dei numeri dei morti successivi per radiazione. Generazioni.

Vale la pena ricordare che al maggiore Claude Eatherly, responsabile del settore meteorologico per il primo lancio di Bambino-Little Boy, come a tutti gli altri protagonisti di Hiroshima e Nagasaki, si apre un futuro ricco di gloria sia per quanto concerne la carriera sia per quanto riguarda il settore pecuniario. Claude Eatherly, secondo un pensiero di Albert Einstein si avvia nella direzione contraria, diventa, per così dire la Bestia Nera dell’Amministrazione USA.

Chiede il congedo, deciso a non realizzare quel futuro promettente che gli si apre davanti. Non è disposto ad accettare l’offerta di una pensione di 237 dollari al mese, ma il regolamento militare non lo consente ed egli riesce a destinarlo, ostinato, all’associazione vedove di guerra.

E’ utile il confronto con il pensiero di Paul Tibbets, il comandante dell’Enola Gay. Quest’ultimo afferma : “Personalmente non ho rimorsi. Mi fu detto – come si ordina a un soldato – di fare una certa cosa. E non parlatemi del numero delle persone uccise. Non sono stato io a volere la morte di nessuno. Guardiamo in faccia la realtà : quando si combatte, si combatte per vincere, usando tutti i mezzi a disposizione. Non mi pongo un problema morale : feci quello che mi avevano ordinato di fare. Nelle stesse condizioni lo rifarei.”

La nube ocra che sorge dall’annientamento di ogni forma di esistenza e inghiotte, interrompendolo, il fluire della vita nel territorio di Hiroshima e Nagasaki, avvolge anche in una sorta di incubo continuo Claude Eatherly, il quale in cerca di una sorta di espiazione dalla via del ritorno alla base quel 6 agosto 1945, rifiutando l’aureola di eroe, comincia a compiere atti antisociali, in cerca di una pena, perché :” Ho l’impressione di essere più felice in prigione, perché la coscienza della condanna e la certezza della pena procura un’ombra di sollievo alla mia colpa.” Pensa in tal modo, rendendo pubblico il suo pensiero, di indurre ad una rivalutazione “ dello schema di valori e obbligazioni che sono alla base dell’azione dell’uomo.”  Un dubbio sull’obbedire per obbedire.

Il vice comandante Fred J.Olivi del bombardiere Bockstar, che sganciò la seconda bpmba su NAGASAKI : “ Non mi sono mai pentito di aver buttato la bomba su Nagasaki, obiettivo sul quale abbiamo ripiegato non avendo potuto radere al suolo Kokura. Solo un secondo prima di sganciarla ho pensato che stavamo per uccidere vecchi, donne bambini.

(- e qui viene in mente una famosa affermazione di Amos Oz nel corso delle sue famose lezioni all’Università di Tubingen , volta all’immedesimarsi nell’altro da sé -)

Poi, continua il vice-comandante del Bokstar, mi sono venuti in mente quei bambini e quelle donne giapponesi che andavano incontro ai soldati americani con bastoncini avvelenati nascosti per ucciderli. No, non mi dispiace aver tirato la bomba. Anche perché con questa operazione abbiamo fatto finire la seconda guerra mondiale. Senza l’atomica forse oggi molti bambini americani non ci sarebbero e i loro padri non sarebbero mai nati : in caso d’invasione del Giappone i loro nonni sarebbero morti e i loro padri non sarebbero mai nati: E quindi nemmeno loro sarebbero nati.”

(- e qui un secondo invito repetita juvant, ad approfondire il concetto sull’immedesimarsi nell’altro da sé, uno degli argomenti delle 3 Lectures di Amos Oz tenute all’Universita di Tubingen –)

Questo rifiuto a non omologarsi, questa voglia di sottrarsi  agli schemi rigidi dell’establishment militare e no Usa, fa considerare Eatherly un “reprobo” uno schizzato, fuori di cervello ed egli finisce nell’ospedale psichiatrico di Waco.

Il suo caso, volere o no viene a galla e mentre è ancora ricoverato, Claude Eatherly riceve una lettera da un famoso filosofo tedesco: Guenther Anders.

Il carteggio fra i due merita di essere ricordato.

Lettera 1. a CLAUDE EATHERLY.

 Al signor Claude R. Eatherly ex maggiore della A. F. –  Veterans Administration Hospital Waco, Texas      3 giugno 1959

Caro signor Eatherly,

Lei non conosce chi scrive queste righe. Mentre Lei è noto a noi, ai miei amici e a me. Il modo in cui Lei verrà (o non verrà) a capo della Sua sventura, è seguito da tutti noi (che si viva a New York, a Tokio o a Vienna) col cuore in sospeso. E non per curiosità, o perché il Suo caso ci interessi dal punto di vista medico o psicologico. Non siamo medici né psicologi. Ma perché ci sforziamo, con ansia e sollecitudine, di venire a capo dei problemi morali che, oggi, si pongono di fronte a tutti noi. La tecnicizzazione dell’esistenza: il fatto che, indirettamente e senza saperlo, come le rotelle di una macchina, possiamo essere inseriti in azioni di cui non prevediamo gli effetti, e che, se ne prevedessimo gli effetti, non potremmo approvare ‑ questo fatto ha trasformato la situazione morale di tutti noi. La tecnica ha fatto sì che si possa diventare incolpevolmente colpevoli, in un modo che era ancora ignoto al mondo tecnicamente meno avanzato dei nostri padri.

Lei capisce il suo rapporto con tutto questo: poiché Lei é uno dei primi che si è invischiato in questa colpa di nuovo tipo, una colpa in cui potrebbe incorrere ‑ oggi o domani ciascuno di noi. A Lei è capitato ciò che potrebbe capitare domani a noi tutti. E per questo che Lei ha per noi la funzione di un esempio tipico: la funzione di un precursore.

Probabilmente tutto questo non Le piace. Vuole stare tranquillo, your life is your business. Possiamo assicurarLe che l’indiscrezione piace così poco a noi come a Lei, e La preghiamo di scusarci. Ma in questo caso, per la ragione che ho appena detto, l’indiscrezione è ‑ purtroppo ‑ inevitabile, anzi doverosa. La Sua vita è diventata anche il nostro business. Poichè il caso (o comunque vogliamo chiamare il fatto innegabile) ha voluto fare di Lei, il privato cittadino Claude Eatherly, un simbolo del futuro, Lei non ha più diritto di protestare per la nostra indiscrezione. Che proprio Lei, e non un altro dei due o tre miliardi di Suoi contemporanei, sia stato condannato a questa funzione di simbolo, non è colpa Sua, ed è certamente spaventoso. Ma così è, ormai.

E tuttavia non creda di essere il solo condannato in questo modo. Poiché tutti noi dobbiamo vivere in quest’epoca, in cui potremmo incorrere in una colpa del genere: e come Lei non ha scelto la sua triste funzione, così anche noi non abbiamo scelto quest’epoca infausta. In questo senso siamo quindi, come direste voi americani, “on the same boat&, nella stessa barca, anzi siamo i figli di una stessa famiglia. E questa comunità, questa parentela, determina il nostro rapporto verso di Lei. Se ci occupiamo delle Sue sofferenze, lo facciamo come fratelli, come se Lei fosse un fratello a cui è capitata la disgrazia di fare realmente ciò che ciascuno di noi potrebbe essere costretto a fare domani; come fratelli che sperano di poter evitare quella sciagura, come Lei oggi spera, tremendamente invano, di averla potuta evitare allora.

Ma allora ciò non era possibile: il meccanismo dei comandi funziona perfettamente, e Lei era ancora giovane e senza discernimento. Dunque lo ha fatto. Ma poiché lo ha fatto, noi possiamo apprendere da Lei, e solo da Lei, che sarebbe di noi se fossimo stati al Suo posto, che sarebbe di noi se fossimo al Suo posto. Vede che Lei ci è estremamente prezioso, anzi indispensabile. Lei è, in qualche modo, il nostro maestro.

Naturalmente Lei rifiuterà questo titolo. &Tutt’altro, dirà, ‑ poiché io non riesco a venire a capo del mio stato&.

Si stupirà, ma è proprio questo &non& a far pencolare (per noi) la bilancia. Ad essere, anzi, perfino consolante. Capisco che questa affermazione deve suonare, sulle prime, assurda. Perciò qualche parola di spiegazione.

Non dico &consolante per Lei”. Non ho nessuna intenzione di volerLa consolare. Chi vuol consolare dice, infatti, sempre: &La cosa non è poi cosi grave&; cerca, insomma, di impicciolire l’accaduto (dolore o colpa) o di farlo sparire con le parole. E’ proprio quello che cercano di fare, per esempio, i Suoi medici. Non è difficile scoprire perché agiscano così. In fin dei conti sono impiegati di un ospedale militare, cui non si addice la condanna morale di un’azione bellica unanimemente approvata, anzi lodata; a cui, anzi, non deve neppure venire in mente la possibilità di questa condanna; e che perciò devono difendere in ogni caso l’irreprensibilità di un’azione che Lei sente, a ragione, come una colpa. Ecco perché i Suoi medici affermano: &Hiroshima in itself is not enough to explain your behaviour&, ciò che in un linguaggio meno lambiccato significa: &Hiroshima è meno terribile di quanto sembra&; ecco perché si limitano a criticare, invece dell’azione stessa (o &dello stato del mondo& che l’ha resa possibile), la Sua reazione ad essa; ecco perché devono chiamare il Suo dolore e la Sua attesa di un castigo una &malattia” (&classical guilt complex&); ed ecco perché devono considerare e trattare la Sua azione come un &self‑imagined wrong&, un delitto inventato da Lei. C’è da stupirsi che uomini costretti dal loro conformismo e dalla loro schiavitù morale a sostenere l’irreprensibilità della Sua azione, e a considerare quindi patologico il Suo stato di coscienza, che uomini che muovono da premesse così bugiarde ottengano dalle loro cure risultati così poco brillanti? Posso immaginare (e La prego di correggermi se sbaglio) con quanta incredulità e diffidenza, con quanta repulsione Lei consideri quegli uomini, che prendono sul serio solo la Sua reazione, e non la Sua azione. Hiroshima‑self-imagined!

Non c’è dubbio: Lei la sa più lunga di loro. Non è senza ragione che le grida dei feriti assordano i Suoi giorni, che le ombre dei morti affollano i Suoi sogni. Lei sa che l’accaduto è accaduto veramente, e, non è un’immaginazione. Lei non si lascia illudere da costoro. E nemmeno noi ci lasciamo illudere. Nemmeno noi sappiamo che farci di queste &consolazioni&.

No, io dicevo per noi. Per noi il fatto che Lei non riesce a &venire a capo& dell’accaduto, è consolante. E questo perché ci mostra che Lei cerca di far fronte, a posteriori, all’effetto (che allora non poteva concepire) della Sua azione; e perché questo tentativo, anche se dovesse fallire, prova che Lei ha potuto tener viva la Sua coscienza, anche dopo essere stato inserito come una rotella in un meccanismo tecnico e adoperato in esso con successo. E serbando viva la Sua coscienza ha mostrato che questo è possibile, e che dev’essere possibile anche per noi. E sapere questo (e noi lo sappiamo grazie a Lei) è, per noi, consolante.

&Anche se dovesse fallire&, ho detto. Ma il Suo tentativo deve necessariamente fallire. E precisamente per questo.

Già quando si è fatto torto a una persona singola (e non parlo di uccidere), anche se l’azione si lascia abbracciare in tutti i suoi effetti, è tutt’altro che semplice &venirne a capo&. Ma qui si tratta di ben altro. Lei ha la sventura di aver lasciato dietro di sè duecentomila morti. E come sarebbe possibile realizzare un dolore che abbracci 200 000 vite umane? Come sarebbe possibile pentirsi di 200 000 vittime?

Non solo Lei non lo può, non solo noi non lo possiamo: non è possibile per nessuno. Per quanti sforzi disperati si facciano, dolore e pentimento restano inadeguati. L’inutilità dei Suoi sforzi non è quindi colpa Sua, Eatherly: ma è una conseguenza di ciò che ho definito prima come la novità decisiva della nostra situazione: del fatto, cioè, che siamo in grado di produrre più di quanto siamo in grado di immaginare; e che gli effetti provocati dagli attrezzi che costruiamo sono così enormi che non siamo più attrezzati per concepirli. Al di là, cioè, di ciò che possiamo dominare interiormente, e di cui possiamo &venire a capo&. Non si faccia rimproveri per il fallimento del Suo tentativo di pentirsi. Ci mancherebbe altro! Il pentimento non può riuscire. Ma il fallimento stesso dei Suoi sforzi, la Sua esperienza e passione di ogni giorno; poiché al di fuori di questa esperienza non c’è nulla che possa sostituire il pentimento, e che possa impedirci di commettere di nuovo azioni cosi tremende. Che, di fronte a questo fallimento, la Sua reazione sia caotica e disordinata, è quindi perfettamente naturale. Anzi, oserei dire che è un segno della Sua salute morale. Poiché la Sua reazione attesta la vitalità della Sua coscienza.

Il metodo usuale per venire a capo di cose troppo grandi è una semplice manovra di occultamento: si continua a vivere come se niente fosse; si cancella l’accaduto dalla lavagna della vita, si fa come se la colpa troppo grave non fosse nemmeno una colpa. Vale a dire che, per venirne a capo, si rinuncia affatto a venirne a capo. Come fa il Suo compagno e compatriota Joe Stiborik, ex radarista sull’Enola Gay, che Le presentano volentieri ad esempio perché continua a vivere magnificamente e ha dichiarato, con la miglior cera di questo mondo, che &è stata solo una bomba un po’ più grossa delle altre&. E questo metodo è esemplificato, meglio ancora, dal presidente che ha dato il &via& a Lei come Lei lo ha dato al pilota dell’apparecchio bombardiere; e che quindi, a ben vedere, si trova nella Sua stessa situazione, se non in una situazione ancora peggiore. Ma egli ha omesso di fare ciò che Lei ha fatto. Tant’è che alcuni anni fa, rovesciando ingenuamente ogni morale (non so se sia venuto a saperlo), ha dichiarato, in un’intervista destinata al pubblico, di non sentire i minimi &pangs of conscience&, che sarebbe una prova lampante della sua innocenza; e quando poco fa, in occasione del suo settantacinquesimo compleanno, ha tirato le somme della sua vita, ha citato, come sola mancanza degna di rimorso, il fatto di essersi sposato dopo i trenta. Mi pare difficile che Lei possa invidiare questo &clean sheet”. Ma sono certo che non accetterebbe mai, da un criminale comune, come una prova d’innocenza, la dichiarazione di non provare il minimo rimorso. Non è un personaggio ridicolo, un uomo che fugge così davanti a se stesso? Lei non ha agito così, Eatherly; Lei non è un personaggio ridicolo. Lei fa, pur senza riuscirci, quanto è umanamente possibile: cerca di continuare a vivere come la stessa persona che ha compiuto l’azione. Ed è questo che ci consola. Anche se Lei, proprio perché è rimasto identico con la Sua azione, si è trasformato in seguito ad essa.

Capisce che alludo alle Sue violazioni di domicilio, falsi e non so quali altri reati che ha commesso. E al fatto che è o passa per demoralizzato e depresso. Non pensi che io sia un anarchico e favorevole ai falsi e alle rapine, o che dia scarso peso a queste cose. Ma nel Suo caso questi reati non sono affatto &comuni&: sono gesti di disperazione. Poiché essere colpevole come Lei lo è ed essere esaltati, proprio per la propria colpa, come &eroi sorridenti&, dev’essere una condizione intollerabile per un uomo onesto; per porre termine alla quale si può anche commettere qualche scorrettezza. Poiché l’enormità che pesava e pesa su di Lei non era capita, non poteva essere capita e non poteva essere fatta capire nel mondo a cui Lei appartiene, Lei doveva cercare di parlare ed agire nel linguaggio intelligibile costì, nel piccolo linguaggio della petty o della big larceny nei termini della società stessa. Così Lei ha cercato di provare la Sua colpa con atti che fossero riconosciuti come reati. Ma anche questo non Le è riuscito.

E’ sempre condannato a passare per malato, anziché per colpevole. E proprio per questo, perché ‑ per così dire ‑ non Le si concede la Sua colpa Lei è e rimane un uomo infelice.

E ora, per finire, un suggerimento.

L’anno scorso ho visitato Hiroshima; e ho parlato con quelli che sono rimasti vivi dopo il Suo passaggio. Si rassicuri: non c’è nessuno di quegli uomini che voglia perseguitare una vite nell’ingranaggio di una macchina militare (ciò che Lei era, quando, a ventisei anni, eseguì la Sua &missione&); non c’è nessuno che La odi.

Ma ora Lei ha mostrato che, anche dopo essere stato adoperato come una vite, è rimasto, a differenza  degli altri, un uomo; o di esserlo ridiventato. Ed ecco la mia proposta, su cui Lei avrà modo di riflettere

Il prossimo 6 agosto la popolazione di Hiroshima celebrerà, come tutti gli anni, il giorno in cui &è avvenuto&. A quegli uomini Lei potrebbe inviare un messaggio, che dovrebbe giungere per il giorno della celebrazione. Se Lei dicesse da uomo a quegli uomini: &Allora non sapevo quel che facevo; ma ora lo so. E so che una cosa simile non dovrà più accadere; e che nessuno può chiedere a un altro di compierla&; e: &La vostra lotta contro il ripetersi di un’azione simile è anche la mia lotta, e il vostro ‘no more Hiroshima‘ è anche il mio ‘no more Hiroshima`, o qualcosa di simile può essere certo che con questo messaggio farebbe una gioia immensa ai sopravvissuti di Hiroshima e che sarebbe considerato da quegli uomini come un amico, come uno di loro. E che ciò accadrebbe a ragione, poiché anche Lei, Eatherly, è una vittima di Hiroshima. E ciò sarebbe forse anche per Lei, se non una consolazione, almeno una gioia.

Col sentimento che provo per ognuna di quelle vittime, La saluto Guenther Anders

 Lettera 2  a Guenther Anders  12 giugno 1959

Dear Sir,molte grazie della Sua lettera, che ho ricevuto venerdì della scorsa settimana.

Dopo aver letto più volte la Sua lettera, ho deciso di scriverLe, e di entrare eventualmente in corrispondenza con Lei, per discutere di quelle cose che entrambi, credo, comprendiamo. Io ricevo molte lettere, ma alla maggior. parte non posso nemmeno rispondere. Mentre di fronte alla Sua lettera mi sono sentito costretto a rispondere e a farLe conoscere il mio atteggiamento verso le cose del mondo attuale.

Durante tutto il corso della mia vita sono sempre stato vivamente interessato al problema del modo di agire e di comportarsi. Pur non essendo, spero, un fanatico in nessun senso, né dal punto di vista religioso né da quello politico, sono tuttavia convinto, da qualche tempo, che la crisi in cui siamo tutti implicati esige un riesame approfondito di tutto il nostro schema di valori e di obbligazioni. In passato, ci sono state epoche in cui era possibile cavarsela senza porsi troppi problemi sulle proprie abitudini di pensiero e di condotta. Ma oggi è relativamente chiaro che la nostra epoca non è di quelle. Credo, anzi, che ci avviciniamo rapidamente a una situazione in cui saremo costretti a riesaminare la nostra disposizione a lasciare la responsabilità dei nostri pensieri e delle nostre azioni a istituzioni sociali (come partiti politici, sindacati, chiesa o stato). Nessuna di queste istituzioni è oggi in grado di impartire consigli morali infallibili, e perciò bisogna mettere in discussione la loro pretesa di impartirli. L’esperienza che ho fatto personalmente deve essere studiata da questo punto di vista, se il suo vero significato deve diventare comprensibile a tutti e dovunque, e non solo a me.

Se Lei ha impressione che questo concetto sia importante e più o meno conforme al Suo stesso pensiero, Le proporrei di cercare insieme di chiarire questo nesso di problemi, in un carteggio che potrebbe anche durare a lungo.

Ho l’impressione che Lei mi capisca come nessun altro, salvo forse il mio medico e amico.

Le mie azioni antisociali sono state catastrofiche per la mia vita privata, ma credo che, sforzandomi, riuscirò a mettere in luce i miei veri motivi, le mie convinzioni e la mia filosofia.

Gunther, mi fa piacere di scriverLe. Forse potremo stabilire, col nostro carteggio, un’amicizia fondata sulla fiducia e sulla comprensione. Non abbia scrupoli a scrivere sui problemi di situazione e di condotta in cui ci troviamo di fronte. E allora Le esporrò le mie opinioni.

RingraziandoLa ancora della Sua lettera, resto il Suo                     Claude Eatherly.

Lettera 3 A GUENTHER ANDERS 23 giugno 1959

Dear Sir,

sono stato lieto di ricevere nuovamente Sue notizie. E sarei felice se mi potesse far avere una copia dei Comandamenti dell’era atomica.

Ah, se sapessi scrivere come Lei! Ma se ci sono scrittori come Lei, uno di loro sarà abbastanza efficace da dare al mondo un messaggio che lo riconduca verso la pace e la concordia. Sarà forse Lei a svolgere questa funzione. Se posso aiutarLa in qualche modo, conti pure su di me. Le do il permesso di adoperare la mia lettera per la pubblicazione.

Ho solo brevi intervalli di tempo libero per scrivere, ma se ha da farmi delle domande, Le risponderò sinceramente. Ho sete di risposte ai pensieri in cui sono avvolto, e che riguardano il modo di impedire l’ulteriore accumulazione di armi nucleari e la preparazione incessante della guerra. Ho tenuto molti discorsi davanti a organizzazioni diverse per ottenere appoggio alle mie idee. Ma i discorsi durano cosi poco, mentre i libri sono monumenti. Faccia quindi il meglio che può nei Suoi, e dia agli uomini il messaggio, a cui aspirano tutti gli uomini amanti della pace. In attesa della Sua prossima lettera, cordialmente Suo Claude R. Eatherly

 Lettera 4 a CLAUDE EATHERLY   2 luglio 1959

 Caro Claude Eatherly, non mi chiami &Sir&, La prego. Il modo in cui abbiamo fatto conoscenza è stato certo molto insolito, ma fin dal primo momento ci siamo rivolti l’uno all’altro nella sicurezza di poter nutrire piena fiducia reciproca e nella certezza che ci saremmo compresi: come effettivamente accade.

Mi ha fatto molto piacere che Lei acconsentisse alla pubblicazione della Sua risposta alla mia lettera. L’ho già mostrata, del resto, a taluni amici, soprattutto a fisici nucleari, che sanno quello che si dicono quando parlano della possibile distruzione dell’umanità: e sono rimasti tutti profondamente impressionati dal fatto che la stessa persona che ha avuto la disgrazia di diventare il primo &colpevole incolpevole& dell’era atomica, appartenga ora a quelli che cercano di prevenire il peggio. In una delle Sue frasi Lei dice che ha parlato più volte del nostro problema in pubblico. Davanti a uomini delle categorie più diverse: professori universitari, allievi delle scuole, perfino preti buddisti a Kyoto: insomma, davanti a chiunque, poiché il nostro problema riguarda chiunque, e la minaccia non fa distinzione tra giovani e vecchi, militari e civili, uomini dalla pelle bianca o scura, cristiani, ebrei o maomettani. Sono curioso di sapere qualcosa delle udienze di fronte a cui ha parlato.                                                                                                          Le allego il Codice morale dell’era atomica. Mia moglie lo ha tradotto in inglese (o meglio, in americano, poiché è nata in California). Per questa volta il &codice& terrà posto di una lettera più lunga, poiché ho terminato proprio ieri il mio diario di viaggio in Giappone, e mi è rimasto poco tempo per scrivere; devo mettermi a imballare tutte le mie cose, perché dovremo cambiar casa entro pochi giorni. Ma spero di potermi prendere due settimane di vacanza, e ho la ferma intenzione di approfittarne per scrivere una vera lettera.  Cordialmente il Suo amico Guenther Anders “

Claude Eatherly riuscì, grazie al clamore suscitato e per l’interessamento di personalità di fama mondiale, ad essere dimesso dall’ospedale di Waco e morì molto presto, ma da uomo libero e in parte sollevato dal suo pesante fardello.

NOTA 1 : Un altro che non si è mai pentito, ma si è sempre considerato un mero esecutore di ordini, è Eichmann, come risulta dal processo in corso in quella stessa epoca a Norimberga.

NOTA 2 :  Oltre a quanto sopra è opportuno leggere, rileggere e soprattutto ripensare, “Contro il fanatismo” e “Cari Fanatici”, usciti per i tipi di Feltrinelli, autore Amos Oz. Sono ottimi strumenti per sforzarsi di entrare nei panni degli altri, per esaminare le diverse angolazioni e punti di vista di uno stesso problema.

L'articolo Dopo Hiroshima : Nagasaki   (Claude Eatherly : alla ricerca del sorriso perduto)   proviene da Ancora Fischia il Vento.

Cratere con effetti luminosi: Hiroshima Nagasaki

Lun 06/08/2018 - 00:01

di Tracce

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L’ immagine del dopo sgancio di “Little boy”, così lo battezzò Truman all’interno del progetto Manhattan, nel gergo ipocrita dell’immediato annuncio. The Gadget, Little Boy, Fatman (ormai si era fatto uomo quello destinato al secondo obiettivo) e un quarto nome ancora.

Little Boy è nato, una bestemmia poiché per una grande parte dell’umanità la nascita del Bambino è un annuncio di salvezza e di riscatto e per tutti un segno di gioia e del perpetuarsi della vita.

E’ nato Little Boy e sono morte Hiroshima e Nagasaki e con loro la parte di terra, di cielo, di vegetazione, di fauna che le compone. E’ nato Bambino, sono morti migliaia e migliaia fra uomini donne e bambini. Si è verificato il vuoto assoluto della vita per anni e anni e anni. La nascita di Little Boy fu sancita e decretata e voluta come unico sistema per porre fine alla guerra. La seconda guerra mondiale. Il dente avvelenato dopo Pearl Harbour che determina l’ingresso deli USA nello sterminio bellico. Altrimenti il Giappone non si arrende. E la guerra continuerà a dipingere di rosso il pianeta. La resa incondizionata fu posta e non accettata dal Giappone perché disonorevole. Come disonorevole, secondo alcune versioni, il possibile utilizzo di un sottomarino che poteva ospitare nella sua “pancia”- hangar 3 idrovolanti e diversificare la sorte della battaglia nel Pacifico. Secondo altre quel sottomarino sarebbe stato utilizzato come vettore di armi batteriologiche. Pertanto la guerra doveva finire prima. L’unica cosa certa è che furono distrutti i diversi prototipi esistenti catturati, alla fine della guerra, dagli Stati Uniti per non permetterne l’esame alla Russia secondo espressa richiesta. Colpiti e affondati, come in battaglia navale, (famoso giuoco su carta quadrettata giocato quasi sempre in orario scolastico). Nel 2013 fu recuperato un unico esemplare.   A chi interessa, to whom it may concern, il video è disponibile in rete.

Per tornare al tema del progetto e del successo del progetto Manhattan nato dalla più alta concentrazione di geniali cervelli mai esistita e in fuga dalla persecuzione nazista,  stanziatasi negli USA, dove si fa strada con l’appoggio perfino di Einstein e viene proposto al Presidente americano del momento, Roosvelt e poi alla sua morte portata a termine da Truman, per realizzare un’arma di distruzione totale senza precedenti.

Ecco a che cosa servono tutti i denari spesi nel deserto per scegliere sobborghi isolati, lontano dai grandi centri abitati e isolati con filo spinato, campi di concentramento per geni: Oak Ridge (Tennessee), Los Alamos (Nuovo Messico) e Hanford (Washington). Centri fantasma. Centri carcere dai quali non si esce, composti da una popolazione segregata, scienziati e tecnici  e fisici  – circa 125.000 e dai loro famigliari. Città (?)  costruite silenziosamente dal Corpo degli Ingegneri degli Stati Uniti nel segreto più assoluto; non risultano nemmeno sulle mappe. Non ci si può nemmeno arrischiare ad accennare al nome. Anche perché un nome non c’è. Si tratta di laboratori super accessoriati, custoditi da un esercito in uniforme dove non sono ammessi dubbi sul fine, ma è in atto il perseguimento luminescente dell’iter che la SCIENZA in tutte maiuscole insegue, tracciando l’accecante sentiero di formule ragionamenti teorie da brivido partorite da geni deprivati di ogni altro pensiero.

Città senza nome indicata come una casella postale : 1663.

Dove le case se sfiori i muri ti bruci. Dove la popolazione nativa è stata scacciata. Dove una scuola nata da un sogno, viene sfrattata: Dove è difficile ottenere un permesso per uscire. Dove ognuno è perquisito all’ingresso, all’uscita, al rientro col massimo rigore.

Dove si lavora sotto stretta sorveglianza senza tregua, lavoro destinato a sfociare nel deserto del New Mexico della Jornada del Muerto, nome quanto mai emblematico.

Prova di atomica 16 luglio 1945 ore 05.30 col nome di Trinity Test.

Il lancio è supervisionato dal gen. Leslie Groves e dal coordinatore del progetto Manhattan, affidato a Robert Oppemheimer, saltando Einstein noto per le sue idee pacifiste anche se, all’epoca di Roosvelt aveva caldeggiato in una celebre lettera la  costruzione, a scopo preventivo, di un’arma nucleare. Il peso dei servizi segreti americani fu determinante nell’esclusione del fisico anche per la sua origine tedesca al punto di vietare a tutti gli scienziati coinvolti nel progetto di consultarlo.

Robert Oppenheimer dà un ultimo controllo a Gadget.

La bomba al plutonio, del tipo di quella che distruggerà Nagasaki, è posta su una torre d’acciaio alta 30 metri, conto alla rovescia, sgancio allo zero.

Ecco il Gadget : una luce d’oro, di porpora d’indaco, di viola, di verde striato di bianco e una nube a forma di fungo s’innalza fino a 13.000 metri. Forza d’urto dello scoppio pari a 20.000 tonnellate di tritolo. La luce che ha illuminato il mondo, se luce si può definire, è quella dell’atomica.

William L. Laurence, redattore del New York Times :  Un deposito di munizioni è saltato con straordinari effetti luminosi ad Alamogordo.                                                                    Il gran finale di una possente sinfonia degli elementi, affascinante e terrificante, entusiasmante e deprimente, sconvolgente devastatrice, colma di grandi promesse e di conseguenze al momento ignote. Esperimento. Manifestazione dell’esperimento. L’eternità senza tempo è situata in una punta di spillo. I prescelti assistono alla nascita dell’universo, la terra si apre e il cielo si squarcia, al momento della creazione quando il Signore disse : sia fatta la luce.

 

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Il personale coinvolto nell’esperimento si trova nei bunker a circa nove chilometri.

Gioia euforia sollievo per l’esito più che positivo: si alzano i calici, abbracci, danze improvvisate. Battute.

Qualcuno comincia ad avere dubbi.

Primo fra tutti Robert Oppenheimer che in un’ intervista :  «Sono diventato la Morte, dice, il distruttore dei mondi» citando un passo dal testo sacro indù Bhagavad-Gita.

Esito positivo fu il messaggio inviato a Truman. Positivo.

Al Giappone ignaro dell’esistenza dell’arma totalmente letale, è intimata dai governi di Stati Uniti Gran Bretagna e Cina la resa incondizionata, scadenza dell’ultimatum il 2 agosto. Il governo di Tokio rifiuta l’offerta, non è nello spirito giapponese.

Truman : sì alla bomba. A seconda delle condizioni climatiche c’è una rosa di 4 città, sarà il pilota a decidere.

L’equipaggio dell’Enola gay, ignora la morte che il parto del bambino include.

Perché bombardare le città e non gli obiettivi militari? A Nagasaki come a Dresda le vittime civili incutono terrore e disperazione nella popolazione in misura maggiore rispetto agli arsenali di semplici armi belliche; a Hiroshima e a Nagasaki le conseguenze hanno cancellato completamente ogni forma di vita per un lungo periodo a seguire. La prima volta tocca a Hiroshima, l’unica non oscurata da nubi. Si salvano le altre.

La seconda volta il sole splende su Nagasaki e ancora si salva Kokura prima nella lista e i suoi abitanti. “ Nelle umane vicende è una corrente che seguita  conduce alla fortuna.. “ (Shakespeare, Giulio Cesare)

Le ragioni della guerra le ha scritte, uno fra molti, Tucidide:

“Riguardo ai discorsi che vennero pronunciati in prossimità della guerra o durante il corso delle ostilità, mi era difficoltoso ricordare con precisione ciò che ho udito personalmente sia per quel che riguarda me e sia per chi mi riferiva i fatti utilizzando fonti diverse d’informazione, ma li ho voluti esporre come mi sembrava che ognuno avesse detto ciò che doveva essere stato detto in diverse circostanze, aderendo quanto più possibile al significato generale di ciò che veramente fu pronunciato. Invece per ciò che concerne gli avvenimenti accaduti durante la guerra non ho voluto narrarli traendo notizie da anonimi sconosciuti e neanche congetturando tra me e me, ma esaminando scrupolosamente i fatti cui ero stato presente, e quelli riferitimi da altri. L’analisi è stata laboriosa: quelli che erano stati presenti riportavano testimonianze contrastanti, o per la preferenza verso uno degli avversari o per cattiva memoria.  Lo stile storiografico asciutto, potrà, forse, rendere questa narrazione poco gradevole in una pubblica lettura, sarò comunque soddisfatto che venga apprezzata da quanti vorranno conoscere esattamente gli avvenimenti passati e valutare quelli futuri, quando sono sul punto di accadere, con modalità uguali o simili, secondo la natura umana. E ‘ un racconto sempre valido, non un saggio di maestria letteraria, scritto per entusiasmare dei lettori ed uditori contemporanei”.

Thucydide, La Guerre du Peloponnèse, Paris, 1953,I cap.XXII, pp.14-15

E ancora Polybe, Histoires,Paris 1971, III , 31,11 – 13, pp, 67 – 68 : “Gli storici e gli studiosi di storia non devono preoccuparsi dello stile in cui vengono narrati gli avvenimenti, quanto delle cause che li hanno preceduti, che sono contemporanee e delle vicende che hanno seguito tali avvenimenti. Infatti, se si toglie alla storia la ricerca delle motivazioni, della modalità e dello scopo per cui fu compiuto ciò che è stato fatto e la verifica del raggiungimento del risultato, ciò che rimane è un brano di perfetta stilistica letteraria, non uno studio scientifico : al momento è gratificante per lo scrittore, piacevole per il lettore , ma gli studiosi che verranno non potranno trarne nessuna utilità.”

 

Hiroshima 6 agosto

E così la cicogna Enola Gay spiega le ali, ma non sa dove partorirà il Bambino-Little Boy. Little Boy, non molto dissimile da una bomba qualsiasi provvista di alettoni equilibratori si trova già all’isola di Taiwan, arcipelago delle Marianne, dove è stata trasportata dall’incrociatore Indianapolis. Un cilindro di 80 cm di diametro lungo 3 metri e 28 del peso complessivo di 4.400 chilogrammi. Carico nucleare 62.3 kg di uranio 235, scomposta in 4 parti uguali tenute scrupolosamente separate. Al momento 4 detonatori le scaglieranno una contro l’altra, velocità 1500 metri al secondo, per formare la massa critica.                   A Tinian c’è da tempo il 509° stormo di superfortezze volanti B 29.                                       Il col.Paul Tibbets è addestrato per compiere una missione segretissima e di natura ignota agli equipaggi. I puntatori selezionati fra i migliori dell’aviazione sono addestrati per colpire minimi bersagli da una quota di 9000 metri ad una velocità di volo di 500 km orari, assolutamente inconsueta. Il 5 agosto viene dato l’ordine per il giorno successivo.

Claude Heaterly, ventisettenne, meteorologo, ufficiale dell’esercito statunitense ha il compito della scelta. In guerra ha complessivamente abbattuto 33 aerei facendo carriera in un baleno: a 24 anni è maggiore guadagnandosi la “Dinstinguished Flying Cross” (la decorazione più alta “per piloti vivi”). Scelto per la grande missione. Gli consegnano un Boeing 29, lo Straight Flush. Il giorno dell’ora X egli apre la formazione. Sul suo apparecchio non ci sono bombe come sugli altri. Il carico è riservato a Enola Gay. Il suo compito come meteorologo, è di individuare con la massima esattezza il bersaglio e stabilire se le condizioni del tempo consentono di fare centro su Hiroshima o se occorre proseguire verso le seconde destinazioni.

Kokura Yokohama Nagasaki Hiroshima

Sarà quella che avrà il cielo più limpido e puro : il cielo degli angeli  e l’apertura delle loro ali copre tutti e quattro gli obiettivi. Un raggio prepotente di sole riesce ad averla vinta e splende su Hiroshima  su chi si sveglia su chi va a scuola su chi va in ufficio su chi va a fare la spesa.

 

Arriva il messaggio a Paul Tibbets, comandante trentenne della cicogna Enola Gay:

“Coperto a Kokura coperto a Yokohama coperto a Nagasaki a Hiroshima quasi sereno, i ponti sul fiume si vedono bene” Il compito per Claude Eatherly è finito.

Dodici uomini sull’Enola Gay che ha con sè il Bambino : Il trentenne C.te Paul Tibbets,  il secondo pilota Lewis, il radarista Stiborik, i  montatotori della bomba Parsons, Jeppson e Beser, il puntatore Ferebee,il navigatore Van Kirk, il ratiotelegrafista Nelson, gli elettricisti Shumart e Duzembury, il mitragliere Caron.

Dodici uomini ignari di quello che fanno.

Il cielo è sereno: perfetto per regolare il traguardo di mira.

La quota è 9632 metri s. l. m. velocità 528 km/h.

C’è uno vicino ai portelli di lancio, sono aperti i portelli.

Enola Cicogna si libera del fagotto. Uno scoppio  (si sono rotte le acque, ma il parto è perfetto) a meno di 600 metri di altezza.

Ridotto in polvere tutto su un’area di 3 km quadrati. Un alito rovente dai trecentomila ai novecentomila gradi avvolge tutto.

Il parto di Little boy-Bambino è avvenuto, per contro muoiono circa 70.000 esseri umani e altri 70.000 nel corso di anni e generazioni successive.

Scompare Hiroshima in una nube scura.

Questo vede Claude Eatherly che si è allontanato. Comincia il suo personale calvario. Questo vedono tutti.

Messaggio per Truman che la sera lo annuncerà al mondo: il Bambino è nato felicemente.

Per dissolvere con la sua nascita gli abitanti della città mentre la loro ombra è ancora fissata sulle pietre vetrificate, l’ora immobilizzata dalle lancette di un orologio, qualche superstite che vive ancora per vedere la pelle staccarsi dalle proprie ossa.

Bambino il tuo arrivo coincide con l’inferno causato dall’ala spezzata di un angelo che non è riuscito a coprire Hiroshima : oh dio cos’ho fatto.

 

P.S. Il 9 agosto è il turno del Grassone – Fat Man a Nagasaki.

 

Alberto Burri NeroRossoCombustione, 1964 ( particolare)

 

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Ahi…Biviere di restauro ostello.

Dom 10/06/2018 - 00:01

Ahi…BIVIERE di dispregio ostello condannato come l’Italia a un restauro immeritato e incancellabile.

Esistono piccoli gioielli sparsi un po’ dappertutto in Italia in piccole proprietà private.

I proprietari anch’essi sparsi un po’ dappertutto, lontani o in loco o in prossimità.

E, purtroppo una volta di più, queste preziosità sono comuni all’interno di proprietà pervenute per successione e, in un secondo tempo, divise. Piccole enclaves dominate da “possessività” affettive che non tengono conto della logica della vita quotidiana immersa nella realtà. Parcellizzazioni costruite entro parcellizzazioni. Solo pensarlo è complicato, nella realtà lo è molto di più. E non bisogna nemmeno dimenticare alberi secolari, ulivi querce, pozzi, pinetine, spalliere di gelsomini d’Arabia, tubi dell’acqua, contatori… Le prime generazioni tirano avanti bene, nel pieno degli affetti, senza badare a. Badare a ? Badare.

a – qui ci veniva papà a farsi la barba  (il pozzo sotto le querce secolari)

anche mio papà a leggere il giornale e il mio lo vedo ancora lì, andava a caccia (ahinoi per chi non ama questo sport), ma il tiro al piattello sì che bella la gara di fine estate e fine vacanze, come il tè alla Torre Calura situata sul promontorio e pronta a segnalare sui due lati del golfo. Ma questo è ancora un altro discorso, diverso.

b –  e il biviere, come si fa ad attribuirlo ad una proprietà piuttosto che ad un’altra?

c –  e la rotonda della pinetina, per lo stesso motivo ?

E così che possono avere origine le enclaves.

Non è azzardato ritenere che ogni padre si sia fatto la barba al pozzo, o abbia letto il giornale alla pinetina, o si sia seduto a godere del fresco del bosco sui sedili semicircolari che attorniano la vasca, in famiglia denominata “ biviere “. Tutti i padri nel corso di varie generazioni l’hanno fatto. E c’era il patriarca U Nannu Rranni.

Con tutte le complicazioni possibili e immaginabili che si tirano dietro allorché una delle parti viene totalmente ignorata o “sconfitta” o, più realisticamente, si ritiene tale in una politica di amministrazione comune all’interno di gestioni separate. Situazioni che occorre vivere per capire di che cosa si sta parlando.

Il “Biviere”, così detto in famiglia, è una ampia vasca di raccolta di acqua circondata da una balaustra a colonnine di pietra d’aspra, calcarenite, specie lapidea che in certe zone della Sicilia è denominata pietra d’oro (dall’arabo, è credibile) di un caldo color sabbia intenso. Tutto intorno sedili di pietra grigia, seguono l’andamento circolare della vasca e s’interrompono al centro per dar luogo ad una conchiglia di pietra inserita in un manufatto rettangolare  curvo ad arco appena accennato, nel lato superiore: questo manufatto come si può evincere dal lato posteriore consiste di pietre e terra, prodotto del boschivo, macchia mediterranea, sughere, eucaliptus, sorbi, corbezzoli, foglie, verdi, tronghi rugosi, terreno morbido, muschioso, licheni e, quando è tempo, funghi di ogni specie edibili e no, di colori vivi taluni, bruni altri come il terreno.

Il Biviere fa parte della natura e anche se al giorno d’oggi, acqua non ne scorre più dalla classica bocca bucata nella pietra rotonda che sovrasta la conchiglia, come in tutte le fontane siciliane, sembra di sentire fra le chiacchiere degli uccelli, delle foglie, del vento, l’eco di uno sgocciolio appena accennato.                                                       In mezzo al bosco, salendo si vedono dapprima la balaustra e le colonnine  e poi a mano a mano la circolarità delle pietre e le maioliche bianche e blu che ornano la conchiglia e la pietra che la sostiene.

 

Anche in foto anche in video promana atmosfera suggestiva, quasi da sogno di una notte o perfino di un giorno, di mezza estate, di primavera e, in particolare d’inverno. Fra tanto cemento, tanto rumore, tanto tanfo di fumi di macchine questo sito è forse uno dei rarissimi, abbastanza lontano dal traffico e circondato da bosco che è ancora bosco in buona estensione, e aromatizzato dal profumo delle foglie di aranci limoni ulivi e fiori di gelsomini d’arabia in lotta con l’inverno per continuare una fioritura biancostellata. La natura, a suo modo, difende il biviere, con qualche rovo, qualche asparago selvatico, diverse felci e rende morbidi i sedili con spolverate di muschio.

Biviere amatissimo, ma non difeso. Ora, mortificato.

E’ questo il punto.

A qualcuno, è venuta l’idea che quella vasca che non contiene da almeno un paio di generazioni acqua, e che mostra qua e là qualche crepa, abbia bisogno di riparazione per non ..crollare (?).

O forse qualche altro, ansioso, si è convinto e ha convinto qualcun altro che occorreva porre riparo al degrado ?

Di conseguenza è stato dato mandato alla stessa ditta che già operava in loco opere di sostegno di fondamenta o di crepe dovute al cedimento del terreno, di porvi rimedio nonostante qualche timida richiesta, da qualcun altro ancora, di essere messi a conoscenza dei materiali da impiegare, resine comprese per operare, al meglio, un restauro conservativo.

Risultato: cemento a tutto spiano, biancogrigio sulla bellissima ringhiera di pietra dorata e incamiciate con cemento quasi tutte le colonnine della balaustra, usando lo stesso criterio usato per l’interno della vasca.

Di analisi dei danni provocati del tempo sul materiale lapideo, non se ne è mai parlato anche se i danni variano da pietra a pietra, in virtù dell’ambiente dove questi si verificano.

Tanto per fare un esempio: Il danno si può presentare “alveolato” o per “erosione”, “corrosione”, “corrasione”, “crosta”, per “vegetazione infestante” o in diversi altri modi e sono molti, chi è specialista tecnico di restauro lo sa.

Le resine, se devono essere usate, variano in virtù della specificità.

Pertanto il restauro obbligatoriamente deve essere conservativo, e non se ne parla in maniera categorica di ricostruzione.

Le cause possono essere molte. Vento e cristallizzazione dei sali veicolati per infiltrazione di acqua, “alterazione chimica per deposito di materiale inquinante”.

L’incamiciamento delle colonnine si ottiene con un procedimento speciale e, in caso di assoluta obbligatorietà, operato da tecnici specializzati con materiale particolare, creando quasi una camera d’aria attorno entro la quale agire.

Qui, secondo una pittoresca e quanto mai appropriata espressione di un ingegnere palermitano, che definire allibito è poco, se di restauro si può parlare, è stato restauro dispregiativo.

Dispregiativo della qualità dell’opera, della bellezza del manufatto. Offesa al manufatto stesso : è stato costruito col cemento un cannello tutto ridere per non piangere, inserito nel foro piatto, come in tutte le fontane siciliane dell’epoca, inteso a far uscire dell’acqua che da lungo lungo tempo si è esaurita o è stata deviata. Orrore.

Come si evince dalle foto la piastrellatura era eseguita in bianco e blu e le mattonelle, come in tutti i manufatti dell’epoca, erano tagliate a metà trasversalmente e affiancate anche se del medesimo colore. Bianco/bianco, bianco/blu, blu/blu.

Il restauro ricostruttivdispreagiativo ha  posto una fila di mattonelle di un bel blu elettrico quadrate perfette. Effetto stanza da bagno. Senza tener conto del taglio, dell’armonica disposizione di quelle antiche che non sarebbe stato difficile reperire in qualche deposito da qualche impresa che, saggiamente, conserva quanto viene dismesso nella demolizione di antichi manufatti

Su un manufatto antico, si posano in opera tegole antiche, coppi antichi, mattonelle antiche, categoricamente e senza eccezioni.

Il costo evidentemente lievita, anche perché occorre un tecnico specializzato in restauro e non un mastro che può, se bravo, rinforzare l’interno senza osare, realmente, osare, toccare colonne, balaustra, conchiglia, eccetera.

Quel che manda in visibilio ulteriormente sono le strisciate sul cemento pari a quelle che si fanno su certe strade e impiantiti per impedire alle persone di scivolare sulla superficie troppo liscia. Nella fattispecie, uccelli, lucertole, ragni, serpi, coccinelle  poiché conigli, leprotti, cani, cinghiali perfino, difficilmente le utilizzano come assi di equilibrio.

Data, pertanto, l’insipienza degli esseri umani l’unica speranza resta il tempo. Acqua, vento, licheni, muschio, erosione e nuova alveolazione e tutti gli altri ammenicoli che sarebbe troppo tecnico in questo contesto elencare e altrettanto inutile, poiché il danno è fatto, e la beffa al biviere permane, si diano congiuntamente una mano, per annerire e consumare al più presto l’obbrobrio. Chi sa se il Biviere, offeso, nella sua essenza, non si darà da fare personalmente.

Nessun graffitaro, di quelli inutili e senza alcuna dote d’arte, nessuna baby gang, e neanche un cinghiale e magari due, avrebbero potuto causare danni peggiori e maggiori. Certo non avrebbero aggiunto bocche d’acqua e mattonelle da gabinetto.

Un’ultima citazione da un altro ingegnere e da un restauratore : Salvo che all’interno della vasca, non c’era una vera e propria necessità di effettuare opere. Così come si trovava il Biviere, sarebbe rimasto, nella sua piena e solenne annosità e bellezza.

Il restauro è altro e non è compito di un mastro, ma di un maestro del settore.

E qualcuno dei proprietari avrebbe continuato a cullare le memorie di chi l’aveva preceduto e vedere l’erba piegarsi al passaggio di qualche bel cane da caccia allegro e latrante agli uccelli e alle lucertole, come al contrario, ora non farà più e se ne terrà lontano.

A questo punto che c’entra l’Italia? Oggi.

Perché sì, perché, ancora una volta sì, un déja vu.

A Roma, tra parlamento e Quirinale.

Fra multi-Stelle col-Lega-te.

Alla difficile composizione di un difficile governo improbabile. Incollati, a risultato del voto acclarato, gli uni agli altri pur di andare al potere. Europa sì Europa no, reddito sì reddito no, di cittadinanza. Quel ministro sì quello no.

A che punto siamo ? Fine di maggio. Era di maggio. Di Maggio  ? Di Maio ? E tu eri/sei con me…Salvini ?

Un dramma si sta consumando. Con l’Italia in mezzo. E noi, la Comunità nazionale tirata da ogni parte, in ogni modo , con ogni mezzo, mentre cerchiamo di tenere addosso quel poco che resta, brandelli di stracci della nostra storia, incerti sulla sopravvivenza.

O che bel castello marcondinodirondello o che bel castello marcondinodirondà  è più bello il nostro marcondinodirondello e noi tireremo le pietre marcondinodirondello…e noi E noi lo bruceremo….Noi lo rifaremo marcondirondirondello  Noi lo spegneremo O che bel castello marcondirondirondello o che bel castello marcondirondirondà.

 

 

 

 

 

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La realtà frantumata in simulazione: KLIMT EXPERIENCE              

Ven 06/04/2018 - 00:01

 

 

di     Tracce

Esperienza Klimt = Klimt experience. La realtà frantumata ricomposta in virtuale, tramite simulazione.

Klimt experience va bene per tutti. Perché siamo italiani. Così si experience (in italiano esperimenta) Klimt. Pessimo abborracciamento angloitalico.

Siamo talmente abituati alla virtualità che la realtà ci confonde.

Di conseguenza, le opere le dobbiamo vivere nella realtà virtuale. Meglio, dobbiamo simularle per ricrearle in realtà. Appropriandoci, terra terra con scuse anticipate, del pensiero di Beaudrillard.

Le opere di Klimt lasciarono sbigottiti, stravolti e scandalizzati i grandi accademici che le avevano commissionate ( a lui come ad altri artisti dell’epoca ) per adornare e incutere rispetto dal soffitto dell’università di Vienna, salvo errore. Giurisprudenza, Medicina, Filosofia.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Per quanto riguarda la reazione degli accademici, 87 firmatari, occorre riconoscere che Klimt era un po’ cambiato e la sua visione dell’arte, la Secessione che si stava delineando e creando per sua mano, lo portava a nuovi percorsi evolutivi e ad un distacco dai canoni classici fin lì perseguiti. Le critiche e lo sbigottimento davanti alle figure nude in Filosofia, sulla sinistra, che si muovono in un‘ombra oscura che sembra aver la meglio sulla luce sconvolgono i canoni classici dell’illuminismo. Può la vittoria della luce sull’oscurità  estinguersi?  Questo il pensiero delle menti accademiche.

Lotte a non finire e ad onta dello scandalo suscitato dai nudi – lascivi, orrore, – dal pube ostentato in faccia senza pudore, con buona pace di Tiziano, Rubens et alt., le opere continuarono a restare in cantiere, seppure obtorto collo, e boicottarono la sua nomina a docente.

 

Fino a che, nel susseguirsi di alterne vicende e grazie ai finanziamenti elargiti dai suoi due principali collezionisti, Klimt restituì gli anticipi ricevuti dall’università e rientrò in possesso delle opere. Una volta istallate nel castello di Immerdorf, poprietà  di Wittgenstein che aveva acquistato dall’artista Giurisprudenza e Medicina,( in seguito Filosofia fu a lui donata dall’altro grande mecenate Lederer), vi dimorarono fino a che i nazisti in fuga dai russi, diedero fuoco al castello nel 1945 e arsero nel rogo.

L’allestimento dell’esposizione attuale: il termine non è esatto; si tratta di salire su di un otto volante, a imitazione di quello viennese, partecipare a gare di scontro macchine, percorrere una serie di tunnel, avvolti da un gran frastuono musicale e canti amplificati UHD tratti da melodramma  (a beneficio della digital generation cui sembra essere destinata ?) et similia. Fatevi avanti giovani millenniali : li avvertite gli odori degli alberi, riuscite a toccare i frammenti delle immagini in movimento come pezzi concreti così come reclamizzato dagli autocelebrantisi realizzatori?

O vi piacerebbe movimentarli personalmente tipo playstation, e già sarebbe un migliore risultato, piuttosto che nuotarci dentro passivamente. Giganti virtuali che schiacciano nanetti reali. Una giostra trascinante : lo spettacolo c’è.

Non si può negare la violenza dell’effetto. Tecnologicamente di ottima fattura. Frutto dell’azione di diverse squadre di tecnici, operatori, realizzatori di tracce musicali, ingegneri del suono, architetti in numero rilevante, trasportatori ecc. E se qualcuno è stato dimenticato, pace.

Nell’ingresso in direzione delle toilettes alcuni pannelli didattici. Forse, causa la sistemazione, in eccedenza. Subito dopo inizia il percorso che porta ad un’altra saletta, fornita di monitor a misura umana che illustrano la storia di alcuni quadri e dello stesso artista e della rivoluzione da lui creata con la Secessione Viennese. Ottima idea, infatti molto apprezzata con soste prolungate davanti ad ogni schermo. L’esistenza di questa saletta giustificherebbe un affollamento di classi studentesche in vacanza in Roma e di altre di scuole residenti, con professionisti adeguati che inducessero a vedere l’opera e non solo a guardare, poiché a questo scopo sono in essere le sale successive.

Un bell’artista Gustav Klimt al quale non importavano i “mi piace” dell’epoca né, per gli stessi motivi, avrebbe prestato attenzione a quelli in voga oggi.

Sono quello che sono, dicono le sue opere i miei dipinti discendono dalla mia essenza.

 

 

 

Figlio dell’epoca di Freud, senza saperlo di essere, tra simboli, inconscio, fascino dell’onirico, postumi di innamoramento dei mosaici aurei di Ravenna, libero quel tanto che gli è sufficiente per restituire, come detto, in un secondo tempo, gli anticipi versati dall’università e sottrarre le opere ai vaniloqui degli accademici. Con dei finanziatori alle spalle, ha la libertà, non di fare quello che gli pare e piace – come moltissimi intendono oggi – e che sarebbe più esatto definire licenza illimitata ed egocentrica, ma di continuare la sua ricerca e proseguire diritto per la sua strada che lo porterà al conferimento del premio dell’Esposizione Universale di Parigi nel 1900  e, nel 1905, a quello di Roma e al suo intento di lasciarsi alle spalle ogni opera finita, dopo lunghi approfonditi ed estenuanti studi senza cruogiolarcisi dentro, indice della pura essenza dell’artista. Le fotografie delle sue opere perdute, in bianco e nero, salvo una cromatica di un particolare, quelle degli studi su carta quadrettata, le volute dei nudi cha alzano la danza dal foglio e il morbido spostarsi dei veli, la piattezza voluta di Igiea, hanno una potenza maggiore delle frammentate tessere che si intrecciano si sovrappongono si susseguono nello scatolone e mischiano dal pavimento al soffitto le parole e il pensiero dell’artista e si possono calpestare e in realtà le sue parole sono sotto le suole delle scarpe dei visitatori, ben riflesse.

 

Questa Klimt experience  ci sbatte, è la parola, in un immenso Prater al chiuso, un fantasmagorico carosello : un contenitore rettangolare di grandi dimensioni le cui pareti raggiungono una notevole altezza e collegato ad un piccolo tunnel tutto specchi, solennemente definito “sala (?)  degli specchi”, e ad una stanza bookshop (stranamente descritta con il termine italiano libreria) fornita di strumenti per una ulteriore visione a tre quattro o ventimila uhd, i famosi “oculos”.

 

Voluttà di dettagli messi in scena, giganteschi, minuziosamente espansi, cromaticamente esasperati, dice il pieghevole “immersivi”, impregnati di suono al massimo.

 

Qualcuno tenta di immergersi, dopo essersi sbarazzato dello zainetto d’obbligo e si stende sull’enorme divano che segue la linea rettangolare posizionato al centro dello stanzone e corredato di cuscini, e si perde nel soffitto; qualcun altro alle due estremità ha una postazione migliore e una visione meno faticosa delle immagini che occupano la totalità dell’ambiente e si muovono scivolando ondeggianti sui lati lunghi e quelli corti. A tratti occorre dare agio al collo e alla testa e alla vista. A occhi chiusi le post-immagini continuano ad occupare la retina con un flusso ininterrotto di teli che avanzano e incombono : alberi, fiori, gambe, teschi, seni, pubi, in un incessante susseguirsi tutti enormi creano un bombardamento violento a colpi di laser continuo inarrestabile progressivo lancinante ritmato da un suono avvolgente a volume tale da sovrastare il chiasso di eventuali classi studentesche, generazioni digitali, ecc. alle quali questo tipo di evento è indirizzato con lo scopo di portarli ad approfondire l’argomento in essere. E’ inutile , o forse no, sottolineare che i bracci di una playstation di ultima generazione, appunto, sia di maggior interesse visto che i fruitori/ragazzi se ne stanno nell’ultima stanza coi loro begli “oculos” ondeggiando sulle sedie, e nemmeno entrano nella “sala degli specchi” trilaterale più pavimento e soffitto, dove, in effetti, una certa sensazione di vertigine si raggiunge, quasi una ripercussione  dell’effetto salone, non appena introdotto piede esitante sulla riflettentesuperficiepavimento. Un ricordo : luna park, un altro : tunnel  con specchi deformanti, immagini grottesche, direzioni labirintiche convergenti divergenti.

 

Qui, le dimensioni ridotte, e l’entrata che corrisponde all’uscita ripete all’infinito il riflesso di una sequenza di volti e di onde che si incontrano si sottraggono si fondono tutto attorno, musica a oltranza sempre dolby surround,  e tuttavia : manca la tensione del labirinto, la ricerca della via di scampo, la sorpresa all’improvviso. Ripetitivo e, anche, noioso. Un poco. Molto.

 

Per finire, nell’ultima stanza, manichini acefali, che appaiono fuori posto in una rievocazione volere o no klimtiana, ai quali sono stati posti addosso costumi confezionati con tessuti di pregio che si rifanno ai colori e al decoro di Gustav Klimt. Una vetrina anonima di un grande magazzino.

 

Artificiali nella loro concreta tridimensionalità, si offrono alla vista normale deprivata di “oculos”, e suscitano il desiderio delle superfici all’apparenza piatte delle opere originali di Gustav Klimt, splendide, nella loro reminiscenza, dopo il viaggio compiuto in quel di Ravenna, dei prestigiosi bagliori bizantini.

E’ da auspicare, così come stampato nel pieghevole, che la generazione digitale possa, potrebbe, trovare motivo per desiderare di approfondire la conoscenza dell’opera di Klimt situata nella sua epoca storica, di rottura con l’accademismo e di ricerca di nuove spinte verso l’innovazione, accompagnata da quella del pensiero, che hanno reso la Secessione Viennese una pietra miliare nella storia dell’arte. Seguire un’usta, non solo visuale, l’odore che la cultura, lascia sempre, penetrante, a volte violento, a volte poco gradito, a volte in anticipo sui tempi. Qui l’usta, per dirla tutta, è un po’ troppo commercial/ ammorbante. Uno su mille ce la fa, recita una canzone. Per quell’uno su mille che avesse voglia di vedere le opere dei grandi dal vero, questo evento con tutto quel che è costato realizzarlo, le sue squadre di tecnici e ingegneri e architetti ha raggiunto il suo obiettivo.

E con il fascino del web, reclamizzato sempre in questa occasione, come di seguito : “Soprattutto oggi nella società dell’immagine in cui una foto, rispetto a qualsiasi saggio critico, raggiunge un pubblico immensamente più vasto».                      

Una costatazione esatta e gelida con il benservito all’essenza della cultura.

Sempre che non abbia generato unicamente la bramosia dello strumento tecnologico, una nuova versione di play station, un automatismo robotico che porti allo spossessamento del sé come ipotizzato da un laboratorio ancora in atto in una grande esposizione romana che merita, con grande rispetto per quel che esprime e per la vastità della ricerca scientifica in atto e in divenire verso la CONOSCENZA, un capitolo a sé.

Il tutto dura all’incirca un’ora e mezza. Ha termine il confronto/immersione con la simulazione resa disponibile tramite strumenti telematici e si supera il confine per rientrare nella realtà priva di interfacce non convenzionali…..al pari di piloti nel corso di speciali addestramenti…..mollati occhiali e in altre situazioni caschi e guanti e sensori….    Inseguiti, “assecutati”, con la sensazione di una gigantesca indigestione di sistemi, fuoriusciti da quanto esistente in potenza e alla ricerca di configurazioni di equilibrio su un piano rettilineo, nel centro storico di Roma problematico, soprattutto stabile. In fondo al tunnel s’intravede, come d’uso, una luce. L’entrata è uscita. Si scende dal frastornante otto volante. Che cosa resta di Klimt experience : gigantografie di quadri spezzettati in altre gigantografie di particolari, scie di colori, rifrazioni riflettenti rifrazioni. Oculos per entrar dentro. Non si avvertono al momento odori mentre nel 1962 un congegno ideato da Heilig li trasmetteva nel corso del filmato allo spettatore insieme con vibrazioni e sensazione di vento. Li avremo, li avremo, l’immaginazione deve essere annullata. A Milano, Castello sforzesco, si simulano interazioni come falconieri. Dotati di archi. Odor di sangue e sudore. Basta prenotare.

Post-riflessione nella retina nelle orecchie nel cervello.

Complesso Monumentale San Giovanni – Addolorata Sala delle Donne – Roma (edificio della seconda metà del XVII secolo)

Tutta questa operazione ha il patrocinio del Ministero dei Beni delle Attività Culturali e del Turismo, del Comune di Roma, del Forum di Cultura Austriaco e la partnership di Trenitalia. Forse in viaggio verso il sud sugli scalcinatissimi treni notte di Trenitalia in qualche cabina singola supereconomy, ma sempre di costo superiore alla resa, quasi sempre carente di acqua nel minilavandino sbreccato, con la tendina del finestrino inceppata a metà, lampadine non funzionanti e polvere, lanugine, briciole e cartacce lasciate dal precedente occupante appena sostituito, occhieggerà il volantino di Klimt experience tra un bitorzolo e l’altro dello pseudo materassino per la goduria della lettura esaltante la riproduzione, non in full hd senza surround dolby e oculos al massimo della perfezione, del divano d’epoca esposto nell’ultima stanza e indubbiamente più comodo.    A voi l’experience.

 

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POVERITALIA : Invito al Gran Ballo della cordella

Dom 04/03/2018 - 00:02

 

di Tracce

 

“La S. V. Ill.ma è invitata al Gran Ballo della Cordella che avrà luogo il giorno 4 marzo 2018 dalle ore 7.00 alle 23.00: La sua presenza sarà oltremodo gradita. R.V.P.”          Un invito datato febbraio 2018 su carta a mano color crema, redatto in elegante corsivo inglese, indirizzato a Madama Poveritalia. I mittenti sono molti, e vanno in ordine d’importanza da presidenti emeriti, a presidenti, segretari, ricoprenti carche varie protagonisti del vortice di nastri di vari colori, tema dell’evento.

Alla fine di febbraio 2018 che c’entra l’Italia incollata all’aggettivo pover ?

Ma siamo così insipienti?

Poveritalia perché sì, malgrado le consolatorie asserzioni del ministro delle finanze, anzi poveraccia, perché, ancora una volta sì, fa proprio pena.

Bella e maltrattata nei siti archeologici, che sono molti, e tutti adeguatamente trascurati quale più quale meno, negletti. Nei musei vantati e rivantati, affidati e tolti a tutti, a turno, per provare chi li valorizza di più, mani straniere, mani native nel giuoco dell’elastico, del tira e molla, anche del sottomuro. Grandi esposizioni quadri, sculture che vanno e vengono oltremare, in una giostra di scambi, se tu presti una cosa a me io ti presto una cosa a te. I nostri artisti eccelsi che si spera di far intendere ai giovani, ai fanciulli, agli scolari accompagnati in queste musealaboratorialmaratone artistiche, giornate fuori scuola, molto apprezzate in ogni tempo da ragazzi in tutt’altre faccende affaccendati. Fanno il paio con le vacanze per neve. E come dargli torto ?

E infine la tortura dei nostri politici a tutte l’ore. Si sa fanno il loro mestiere e fin qui niente da eccepire. Il problema s’incentra sulle modalità di esecuzione. Parlano parlano parlano. Sproloquiano, che cacofonia. Cacofonia. Un mestieraccio. Vinco io, no, io, lui no per carità, se non vinco mica me l’ha prescritto il medico vado all’opposi<ione.

 

 

A questo proposito all’improvviso un’immagine. Un video che s’impadronisce della memoria. Via Leone IV, Roma, molti anni fa. Quel gran vialone che nel suo snodarsi cambia nome un paio di volte ad onta di un suo percorso lineare senza deviazioni. Insomma, quello stradone lì. Un uomo lo percorre a passo di corsa, tipo bersagliere, senza fanfara. E, tipo parata a via dei fori ex imperiali, la gente si dispone sul marciapiede interessata e divertita. Mancanti – come si esprime Firefox o Google o quello che stai utilizzando – cancellato da una linea che taglia in due la parola – automezzi militari o della Croce Rossa, elicotteri in testa, cavalli e cavalieri, linee perfette di truppa grigia blu verde bianca mimetica col capo in testa a braccio teso che regge diritta in avanti la spada o sciabola o quel che è. Esistente piccola figura umana che calpesta l’asfalto con ritmo e precisione. L’ultimo della maratona ? Quelli della prima fila rumoreggiano  e ridono e il riso segue il percorso, mentre quelli dietro allungano il collo e si spingono e si sporgono per capire il motivo. Una risata collettiva, per lo più, con qualche gridolino di stupore, di quasi orrore, di bigottesco sapore, però nessuno smette di guardare l’uomo del tutto nudo che protende il braccio armato nella sua corsa regolare cacciando a tratti un bel grido.

Giorni fa’ un episodio quasi analogo, ma perfezionato. Un uomo, sempre nudo, percorre una strada, sempre di Roma, e corre e corre e corre e, mentre corre, fa i suoi bisogni e non li fa arrivare a terra perché li raccoglie nella mano, sempre correndo e li lancia intorno a sé, dove arrivano arrivano. Addosso a malcapitati passanti che si sono trovati nel punto sbagliato al momento sbagliato o nel punto giusto al momento giusto, a seconda dell’angolo di visuale del passante o dell’uomo in corsa nudo libero irriverente che invece di pasquinate lancia …cacca.

!? Ecco là.

Solo a Roma e, tutto a Roma, succede ?

Evidentemente no.

D’accordo una grandinata del genere non è piacevole, anche perché i passanti non hanno fatto niente per meritarla. L’hanno subita. Passanti per caso.

L’idea è un’altra. I nostri politici impegnatissimi in campagna elettorale. Da nord a sud da est a ovest. Dal continente alle isole, maggiori e minori. Urlano strillano insultano:  un coro di j’accuse ( chiedendo scusa per il paragone veramente immeritato dai nostri politici ). Un’asta a chi alza più il carico. Tre indagati a me, quattro a te, no uno di più, vince il taglio più alto. Impresentabili e intanto li presentano tutti. No al cambio di casacca, sì al cambio e tutti a contare sul pallottoliere/abaco/smartphone  quanto valgono tre casacche rispetto a due o cinque, rispetto all’uninominale, alla lista, sl al proporzionale di questa legge, questa sì, impresentabile salvo a chi l’ha ideata e a chi, ancor peggio, votata in parlamento. Com’è che ci stanno giocando a ping pong ora in campagna, al mare o in montagna elettorale ? O dove eravate bei bimbetti? L’hanno votata a vostra insaputa? Alle vostre spalle? Cattivissimi e/o…trovatevelo da voi l’aggettivo più calzante.  Oramai il lavaggio del cervello effettuato nei confronti degli elettori è tale che sono convinti, gli elettori, che tutti l’hanno ideata discussa e votata all’insaputa di tutti. E si dovrebbe andare a votare. Chi ? Gli ignari ? Gli inconsapevoli? I semina e compie e predica violenza? Chi insozza le lapidi ? Chi si è buttato alle spalle Enrico Berlinguer? Chi promette cancellazioni di leggi o chi incita a turarsi il naso (con una mancanza di originalità da togliere il respiro) e votare quel che resta del partito che ha rottamato. Tra pestaggi e contropestaggi. O infilarsi il paltoncino del Gruppo Misto alla Camera.  Pronti, a risultato del voto, acclarato a rivoltarlo per incollarsi gli uni agli altri sulla via del potere. Per generare ?

Una terza immagine : il ballo della cordella, ognuno da solo tutti i fili liberi che danzano nell’aria e le mani che li tirano volteggiano sottolineando la danza.

Il ballo della cordella, prima.

 

 

 

E il ballo della cordella, dopo il 4 marzo

 

 

 

Mancante : il sito del Gruppo Misto che si moltiplica in tutte le direzioni.

Sono visibili gli intrecci delle cordelle che tutti hanno formato danzando fronteggiandosi allontanandosi gli uni dagli altri in un giuoco senza fine teso a combinare tessere riannodare i vari colori e piroette. Piedi che si alzano (pedate?) gonne che volteggiano  e fili e fili e fili che si sposano in un intrico ben orientato a formare un disegno preciso, una trama già tessuta in anticipo a cordelle sciolte e libere ma ben consce dell’”appaiamento” che sarebbe seguito. Già tutto fatto e predisposto.

La violenza verbale in crescendo da un po’ di anni a questa parte. Vero o non vero che sia, effettivamente una certa quale aggressività orale la si percepisce, fra miraggi di promesse, oggi. E domani? E domani. Ma quale violenza verbale, fa scena e colore come il fango che si buttano addosso. Pronti a ripulirsi a vicenda a “smacchiare”  in una tintoria che ha vinto l’appalto ancor prima che fosse lanciato il costume prestabilito da indossare.

Il dubbio da chiarire è : chi farà meno danno?

E non turarsi il naso.

Un sogno. Una utopia.

Gli Orazi e i Curiazi, sempre chiedendo scusa a quelli con O e C maiuscola che non praticavano il così detto fuoco amico.

Tutti in piazza del Popolo i politici, non ci sarebbe piazza più adatta, a far campagna elettorale tutti insieme. O che bel castello marcondinodirondello o che bel castello marcondinodirondà  è più bello il nostro marcondinodirondello e noi  lo distruggeremo  e noi tireremo le pietre marcondinodirondello…e noi …

Solo che invece di pietre dovrebbero, unicamente coperti della propria pelle, fare quel che ha fatto il pazzo di cui sopra. E se tira il vento dalla Siberia, meglio. E’ se torna la neve con contorno di ghiaccio,una goduria, e tutti a improvvisar piroette e incollarsi gli uni agli altri per cercare di restare in piedi ( dopo il 4 di marzo).

Più appropriato e quanto mai divertente. Basta immaginarli così, come in realtà potrebbero essere, e chiarirsi le idee.

E ancora oh quante belle figlie madama dorè o quante belle figlie… Son belle e me ne vanto…

 

 

 

 

Nudi e crudi, finalmente come mamma li ha fatti e poteva andare al cinema con papà quella volta, o fare una passeggiata, andare alla partita, a un concerto, guardare la tv tutto meno che darsi alla procreazione.

 

 

In silenzio dal loggione/terrazza del Pincio assiste al certamen, il Popolo, i lavoratori quelli sbattuti fuori con un preavviso di 15 giorni, in prima fila a formare una catena storico-ideale con coloro che hanno dato la vita per salvaguardare o addirittura creare i diritti dei lavoratori. Il primo che viene mente, uno per tutti, Placido Rizzotto.

 

 

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ROMA trascolorata

Lun 19/02/2018 - 00:03

di Tracce

 

Due ai piedi dei muraglioni del Tevere e in sottofondo appena un accenno dell’acqua in movimento.

Bella.

Bella?

Bella.

Soltanto bella?!

Che c’è da dire di più. Splendida stupenda meravigliosa unica, lasciamo ai social questi aggettivi che adornano fotografie e riprese, per lo più selfish al 90%, di facce in tutte le salse ogni giorno rinnovate e sempre più stantie. Da qui il nome Libro di facce. Mia personale traduzione. Se fai uno scambio di consonanti e sostituisci c di face (inglese) con k ecco che risulta fake b.

Come sai tutte queste cose?

Mi sposto leggo e faccio i miei bisogni su tutto.

Chi sa quante città hai visto.

A volo.

…ma… il Colosseo… San Pietro…i tramonti che incendiano i Fori…le ville, il roseto, il giardino degli aranci, il centro storico, l’Eur, le catacombe, non sono mica fake b.

Sono tutti elementi che fanno guadagnare un Oscar a un film. Un film che si è accaparrato il voto quasi completamente per via dei luoghi che hai citati.

Una ripresa panoramica.

Da una terrazza riservata ai ricchi, a quelli che ci vivono senza sapere con quali soldi è stata loro donata dal donatore; brave persone immerse in una cerchia di personaggi un poco affaccendierati in un’alba euroimpregnata di imprenditori ministri consiglieri onorevoli e senatori che (le brave persone) non riescono a focalizzare e dei quali pare loro superfluo per non dire ineducato approfondire l’essenza comportamentale. Basta. Non assumere quell’ espressione incerta. Mi reputi un tantino esagerato. Condivido. Le asserzioni non bastano. Vieni. Ho qualcosa da mostrarti.

Agilmente si affrettano per le scalette, superano il Lungotevere e approdano in Piazza Cavour.

Beh che c’è qui di bello? Il Palazzaccio (la sede della Corte di Cassazione per chi romano non è), il cinema Adriano, in fondo a una via che si dirama dalla piazza si vedono i parapetti del Lungotevere, una cupola immancabile di chi sa quale chiesa o basilica, la statua di Camillo Benso conte di Cavour, la sede proprio in faccia al Palazzaccio di una rinomata enoteca.

Guarda bene.

Io guardo guardo non vedo altro che un po’ di praticelli erbosi diverse palme che qui ci stanno meglio che in Piazza Duomo a Milano qualche panchina, uno che ci dorme sopra al sole (oggi febbraio c’è e pure tiepido) e…

Quella, giovane amico, è una terrazza e lì sdraiato e intorpidito dal sole, c’è l’omologo del personaggio alba euroimpregnata con vista panoramica del quale ti ho parlato. Uno zaino per cuscino, l’ombra di una palma tra poco, un berretto in testa e le braccia lungo i fianchi. Quando il sole si muove, si scuote e trova un altro lato della sua veranda dove sdraiarsi, intorpidito.

Ma è un barbone un senza carte un senza casa… E e poi a piano terra che terrazza è. Uno che che ha rinunciato, senza risorse e poi quale terrazza è è è

Che fai zagagli. Mi pari quella pubblicità con l’eco è è è.  Non sarà terrazza ma veranda sì. Ha rinunciato, per suo volere o no, è da verificare. Per suo volere, mi fa sentire bene.  Seguimi. Ti voglio mostrare la sua casa. Un monolocale.

Quella?!

 

Quella : il suo letto, tipo giapponese, materasso a terra, un armadio a vista, con ripiano per lo zaino, sempre a vista, le coperte piegate, ammira la razionalità, il minimalismo.

L’esterno della vetrata di ingresso di un locale vuoto privo di affittuari. Che c’entra il manimal… minimals…che.. l’esterno di una vetrina sfitta è l’esterno di una vetrina sfitta.

No ascolta e impara : si tratta di uno stile architettonico, vedi il muro rientra ai lati, sopra e sotto, cerco di spiegare,  forma una rientranza, non sporge in fuori: non è aggettante. Insomma la vetrata di ingresso non è a filo coi muri e offre riparo in inverno e in estate. Non molto. Ma un minimo sì. Monolocale tipo loft e comprende tutto attorno una veranda comune ai condomini.

Cose così so farmele da me, senza scatole di montaggio con quelle maledette istruzioni che non si capiscono mai. Piano piano, con pazienza e molti arrangiamenti. Ci sono cresciuto in un posto del genere allestito da mio padre e mia madre, anzi per la maggior parte da mio padre, mia madre era incinta all’epoca. Di me e dei miei fratelli.

Si chiama Wright quell’architetto, bestia che sei e il suo nome è scritto tra i grandi dell’architettura. Non gli piacevano i balconi protesi all’esterno e molte altre cose sempre sporgenti aggettanti, appunto. Si dava anche da fare per l’edilizia comune, popolare. Un po’ l’opposto di Gaudì.

Mi sento un po’ confuso.

Hai visto, guardato bene? Posto che ti piace tanto Roma ti voglio mostrare alcune immagini esposte nelle mie gallerie.

E quante ne avrai mai ? Beato te, io non ne ho neanche una.

Magari non lo sai, ma hai i quadri che occorrono. Via via che vai in giro li collezioni. Il resto arriva dopo,

Mi piacerebbe e tu le hai qui ? Le gallerie. Un imprenditore.  Mitico. Dove stiamo andando ?

Sei qui da poco, mi ricordi me com’ero quando sono arrivato. Sei simpatico e non

somigli a quei nugoli di vecchiacce stridule sempre in giro o a quegli altri schiamazzanti che hanno sempre fretta e si agitano senza vedere niente e si spintonano per essere in prima fila a rimpinzarsi di cibo e affogarsi di bevande. Non li sopporto. Sbrighiamoci.

Non riesco a starti dietro.

Uhhh, si insinuano tra piedi che inseguono piedi, pronti a scansare mezzi di trasporto, motorette e vetture scure zeppe di personaggi al di sopra della normalità, comodamente trasportati per vie negate ai comuni mortali, vetture importanti che si seguono si affiancano si superano senza soluzione di continuità in quantità esponenziale dirette a importanti posti di comando.

Guarda.

Sempre vetrine sempre vetrine che noia, tutto qui.

Perché guardi e non vedi. Gallerie. Opere in esposizione nell’epoca della riproducibilità tecnica. Cominciamo da Via Tomacelli.

E’ quella del Macello e del monte dei cocci?

Sta tutta da un’altra parte. Devi saper orizzontarti. Ma dove stai con la testa non conosci i quartieri non hai mai visto un’incisione una mappa

Come no ci mancherebbe con Google

Di Piranesi altro che quello lì, Piranesi ogni angolo ha illustrato, ogni scala, ogni vicolo, ogni fontana, la campagna intorno all’Urbe, piccola bestia ignorante. Eccoci a via Tomacelli. Attraversiamo al semaforo se no ci fanno alla piastra.

Via, via, sono tornati l’antichi romani, non li avevano cacciati multati azzerati annullati.. O so’ alieni? O anche no.

Sono costruzioni, fatte con pazienza, pezzo per pezzo. Mattoncini, si chiamano, è un giuoco in scatola. Ma per davvero non hai mai visto non hai mai toccato un mattoncino

E come no ma per chi mi prendi ci si fanno le case

Fijetto caro parlo di quelli di …come faccio a spiegarti. Si infilano uno dentro l’altro e ci si fa di tutto. Una nave, una giostra, un alieno come hai detto tu.

Un mosaico?

L’idea è quella. Tridimensionale. Ci fai quello che vuoi, scegli la scatola e trovi tutti i pezzi i così detti mattoncini. E ci passi la vita. E riesci a estraniarti da quello che ti sta attorno. Che, poi, non è tanto sbagliato.

E sono tutti fatti co ‘sti pezzettini infilati uno dentro l’altro. Aggregati. E non si disgregano ? Non si scollano ? Visto che so’ solo incastrati.

Questi no, ma ci sono altri esempi di aggregazioni e aggregati ex ante che si possono ex post dissolvere facendo qualche danno. Esplosione, implosione, crollo.

Davvero? Mi piacerebbe vedere come succede.

Una delle più importanti implosioni l’hai già vista.

E quale?

Quella di un insieme di uomini e di idee che operavano per un bene comune. Utile ad altri e al paese.

Come l’Inps, l’Eni, le banche.

L’idea sarebbe questa, sì ma questi non sono implosi. Anzi. Un magna, pardon un magma.

E questo edificio imploso qual’è comesichiama, non mi ricordo.

L’implosione ha distrutto anche il nome. Qualcuno l’ha raccattato facendo a pugni, una zuffa che non dico, è tuo, è mio, no che dici, racimolando ogni residuo, pregno di cenere contorto dal fuoco (amico) e l’ha riverniciato lucidato incollato con rari pezzetti vecchi e tutti gli altri rabberciati su misura così che gli serve da hashtag, da etichetta, e va avanti a rivenderlo per autentico. Ma si tratta di un falso. E la vedi quella pietra bianca ed enorme sospesa tra due specie di rami in fondo. Quella serve da monito. Dicono i rami: fate attenzione non mettetemi tarli addosso che altrimenti questo masso tra le braccia io lo sgancio pe’ fa’ ‘na buca quanto la cloaca massima e ci finite tutti. Che, a pensarci su, non sarebbe malaccio.

Davvero?

Staremo a vedere. Presto.

Davvero ?

Prima di primavera. E’ tempo suo. Ora a via Condotti.

Tu ce l’hai con me. Lo sai che ho paura dei cani, anche di quelli piccoli. Me la faccio sotto.

Sono negli stalli, di lusso ma sempre stalli. Fanno la guardia a oggetti che costano un sacco uno sproposito proporzionato alla differenza di ceto. Condannati ad essere prigionieri degli oggetti che sorvegliano.

Quello nelle sabbie mobili, gli sta bene. Affonda affonda , e tuttavia i piccoli sono quelli che mozzicano di più. Va a finire che ci si rimettono le penne.

Ah MarcoPepeMeoPatacca certo che sei coraggioso al di qua del vetro a ondeggiargli davanti e storcere il collo e fare urlacci.

E mbè !?

Vieni via. Ti faccio vedere piazza di Spagna come non l’hai mai vista.

Pupazzi con maschere nere che mi fanno paura.

Hai ragione, il nero può far rabbia e paura, camicie, vessilli…                                          Nero.

Non è cioccolata. Non è caffè.

Nero.

E’ una moda che crediamo di avere annientato ma ritorna, continua a ritornare, occorre porre molta attenzione. La mala pianta si rigenera.

Contorni esili come filo di ferro di uomini e donne drappeggiati di tessuti colorati.        Vai oltre e visita l’esposizione. Quello di lato è uno dei guardiani che custodiscono la piazza nelle mie gallerie. Trinità dei Monti sullo sfondo, palazzi, e costano sai costano loro e tutto quel che hanno addosso, costano; ma la bellezza della scalinata della fontana della colonna con la statua in cima è free.  Le Opere sono esposte gratis nelle mie gallerie.

Ti credo. Sono solo riflessi.

Immarcescibili. Variano di colore col variare delle ore, meriterebbero, questi riflessi, un prezzo per essere esposti insieme alla merce, un prezzo più alto di quello più alto attribuito al più alto fra gli oggetti esposti. Come questa. Ma non è quantificabile.

O quest’altra. Bella e precaria, non ha difesa, non ha riparo, effimera dura il tempo che dura esposta al sole al vento alla pioggia e ad altri gesti che la ricopriranno all’ingresso della metropolitana Spagna.

Anche questa tua?

Non più. Te la regalo.                                                                                            Andiamo, adesso, è tardi. La vedi quella strada lunga e diritta con due grandi marciapiedi, che non sono quelli originali, riservati ai pedoni e uno stretto corridoio in mezzo per il traffico, molto selettivo, di auto. Blu naturalmente e di taxi. All’estremità del senso unico una gran macchia di cielo azzurro uno stelo diritto e delle mura antiche. Una lapide occupa una porzione del muro e ricorda che due carbonari qui sono stati giustiziati.

E perché giustiziare due che facevano carbone?

Sei una bestia.

E ce lo so.

Erano esseri umani in cerca di libertà. Volevano Roma fuori dal papato in una Italia Giovane.

E cocevano le callarroste cor carbone. Tale e quale l’indiano all’angolo.

Mi arrendo. Il carbone non c’entra si chiamavano così perché si chiamavano così per riconoscersi tra loro.

Ah una chat un nickname un gruppo

Non si può bestemmiare la storia. Mi arrendo nella mia massima estensione. D’altro canto non sei solo tu a bestemmiare le radici di questa città. Che ne puoi sapere tu l’ultimo venuto l’ultimo nato che questa strada aveva marciapiedi stretti e un mucchio di botteghe e le sedi dei grandi mercanti d’arte, Claudio Bruni della Medusa, Tanino Chiurazzi fra le molte, e tutti gli antiquari rinomati nel mondo e restauratori, corniciai, e in fondo la sede RAI. Ora un albergo americano e, una sull’altra, vetrine colme degli stracci più prestigiosi, quelli che si vendono a peso d’oro piume spiumazzi tutti in fila a ghignare davanti ai volti di quelli che sbavano perché sanno che mai nella vita potranno acquistare un centimetro di quanto esposto e quei maschioni schierati all’interno a gonfiare muscoli e digrignare denti per impaurire taccheggiatori eventuali che verranno esclusi a calci ancor prima di entrare. Devi vedere con che aria di superiorità e di tolleranza ti tengono a distanza se appena hai il coraggio di socchiudere il portale. La statua nella vasca (poteva essere perfino quella di Pasquino) una volta o l’altra si tira su e se ne va, si scrolla il muschio di dosso prima che a qualcuno venga l’idea di dar l’incarico a qualche architetto di farne un appendiabiti di marchio o una panchina o un ponte, il ponte del Babuino, mi pare la cosa migliore : l’IDEA. O, meglio ancora, di imprigionarla in una teca bianco-gesso (facile il cambio di consonante) come l’Ara Pacis.

Ma davvero

Eh sì…Una cosa  e poi basta per oggi.

Quel buchetto là, tutto moderno e lucente col bancone da fantascienza colmo della solita mercanzia a taglio, da portar via, pizza panini, burger e magari kebab ornato da lavagnette ai lati dell’ingresso corredate da scritte. ( ”orore”?! ), col gessetto bianco. Quel che resta del favoloso “Baretto” dove si mescevano bicchieri di vino e pezzi di grana per la “vernice” delle mostre degli artisti. Dove tutti incontravano tutti. Artisti giornalisti, cinematografari, teatranti.

Vernice?

Vernice. Vernissage. Il giorno dell’inaugurazione della mostra. Vino fresco e grana a tocchi, fu l’invenzione degli anni ’60.

M’è venuta fame. Andiamo a San Silvestro a rimediare qualcosa per pranzo.

Va’ tu. Mo’ so’ stanco. Gonfio di rabbia per quello che hanno fatto a sta’ città. Conosco un posto ar Fiume, un po’ nascosto, dove non vanno in tanti pe’ rinfrescamme er becco. Vie’ co’ mme.

C’è da mangiare.

Qualcosa se rimedia.

Non c’è mai un bus quando serve, e se pigliassimo un taxi ?

Col fatto che sei nato incollato ai sampietrini non conosci la lievità dell’aria aperta e libera. Sei pesante, sai. Muoviti.  A volo.

 

 

 

 

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La Busta

Gio 04/01/2018 - 00:01

 

LA BUSTA                                                   

di e con TRACCE

 

Una busta pervenuta per posta piena zeppa di foglietti all’interno di eterogenea natura, strappati da notes, quaderni, a volte il retro di stampati pubblicitari, vergati con una calligrafia un po’ disordinata ma leggibile; frasi staccate, ricordi tracciati alla rinfusa accompagnati da una breve nota: tu che hai dimestichezza con la parola scritta dai corpo a questa memoria confusa d’infanzia, tu che cerchi sempre tracce di qualcosa, fa che traccia ne resti.

La busta, riposta in un cassetto destinato alle “varie” trasformato in seguito in una cartella gialla nel portatile con la stessa dicitura, è stata aperta ad ogni fine di anno per una “rinfrescata”, vedi alleggerimento, vedi ripulisti per far posto ad altre varie. Ogni fine anno. Da molti anni. Fissa al suo posto, ultimo della serie. Non è mai salita, non è mai stata dichiarata fuori corso. Fino a che si è messa in mostra, spiegazzata ma in bella evidenza. Solo parole, senza immagini. Quelle, in molti, le portano impresse a fuoco sulla propria vita.

 

 

“Ho un vago ricordo del bar nella piazza centrale di Esanatoglia in quell’estate del ’43.  Da quando era iniziata la guerra, niente più vacanze sulle Dolomiti, niente larici abeti laghi rododendri e le lunghe camminate e arrampicate con mio papà. Qui una conceria in alto e una piazza in basso con la macelleria, in primis, con il ragazzo più giovane che si chiamava, appropriatamente Torello, la farmacia, il portone e le scale che conducevano all’appartamento al primo piano affittato per l’estate.

Che altro? ah sì, il Bar, di faccia.

Avevo nove anni, ammazzavo il tempo come potevo: a) una tibia infilzata su un una pietra aguzza e b) una volata in giù a pelle di leone dalla conceria, con una bottiglia che si era frantumata in mano. In tutte e due le occasioni ero stata medicata dal dr. Furbetta, che con una pinzetta aveva provveduto ad estrarre dal palmo della mano sinistra quelle che a me sembravano migliaia di schegge di vetro seguita dalla consolazione al bar con una pastarella.

Il bar condensava gli stati d’animo, i rancori, le amicizie, le notizie, i sapidi pettegolumi, le infinite classiche storie di paese.

C’era il sindaco, il veterinario, il dottore, qualche sacerdote, soprattutto uno mitico che mescolava il rituale della messa, con rimbrotti personalizzati diretti a chi gli rubava la frutta, o disertava la vita parrocchiale menzionando peccati e peccatori, stilando un elenco personalizzato di quanto gradito dal parroco in merito ai frutti della terra, del pollaio ecc. come penitenza. Era piuttosto povero don Ercole e un vero fenomeno: la perpetua offriva cialde profumate fatte coi ferri delle ostie e, in realtà, mi pareva buffo mangiare l’immagine di Gesù crocifisso spalmata di marmellata. Buonissima, croccante e fragrante, peraltro. In più nell’inverno che seguì si arrischiava per il paese, anziano, ma energico, con uno scaldino tra le mani, estraendolo da sotto la palandrana nera, per dividere con tutti il calore della brace. ll figlio del veterinario, Mario frequentava l’università di Camerino, credo, con indosso la divisa degli universitari GUF, stivali neri compresi, con innocente vanità in perenne diverbio col figlio del macellaio, Torello,  sfegatato antifascista. Erano coetanei, cresciuti insieme, avversari di idee amici avviati ad una cesura non ancora pervenuta alla divisione estrema. Il veterinario girava col classico mantello nero a ruota e a mia mamma faceva venire in mente una vecchia canzone, signorinella pallida, dove si parlava di uno che portava il mantello a ruota e faceva il notaio, e la canticchiava sempre e a me piaceva anche se mia mamma era piuttosto stonata. Tutti questi facevano la loro sosta quotidiana al bar; fra un caffè un bicchierozzo di vino rosso e l’altro volavano sfide, motti aspri politici, scherzi, minacce ringhiate. Partite di biliardo. Non ricordo il proprietario del bar. E poi c’era un’insegnante dall’aria decisa, forte che era in amicizia con certi giovani slavi.

Il Bar: un fazzoletto di terra che racchiudeva l’Italia di allora, acquiescente o ferocemente scontenta di un re debole e dell’uomo mandato da Dio come definito nel mio libro di lettura, che si era via via trasformato nel perfido lupo mannaro, secondo la visione dei miei nove anni. Tutto questo però non influiva, apparentemente, nei rapporti.

E poi, una sera, al crepuscolo la radio diffuse, come al solito, in piazza il bollettino, ma privo delle solite propagande di vittoria. Parlava il maresciallo Badoglio e tutti in piazza, fuori dal Bar in mucchio serrato che subito di divise in gruppetti, le parole si sovrapponevano, persero significato ne acquistarono un altro.

 Il re a Bari. Il nemico tedesco. Il nemico tedesco?! Beh, in effetti molto amichevoli non mi sembravano. L’alleato americano. Alleato?! Con le bombe sganciate su rovine ancora fumanti!? Cambio di ruolo e di casacca. La sera la guerra era finita, tutti attoniti, in piazza. La mattina dopo: si continuava a combattere. Da una parte di quell’Italia divisa in due si combatteva il tedesco. Dall’altra l’adesso alleato americano. Il bar era squarciato. Venne fuori il nome di Cassibile, un posto sconosciuto, dove era stato firmato l’armistizio già qualche giorno prima dell’8 settembre e lì era iniziata la grande confusione perché nessuno era a conoscenza del ribaltamento dei ruoli e amici e nemici non erano stati aggiornati. E questi aggiornamenti avvennero nel sangue. I primi effetti dei danni collaterali.

Nessuno si riconobbe più. Si fece strada la parola partigiano. Pochi ne erano al corrente, ma ce n’erano molti. Gli slavi che organizzavano. E militari in licenza, ufficiali e soldati che non sapevano che fare di se stessi. Sbandati. Renitenti alla leva. E avrebbero dovuto decidere da soli, perché non c’era più nessuno a cui rivolgersi. E ci si cominciò ad interrogare su chi era ancora amico e chi nemico nel bar. Cominciò ad arrivare da Matelica la polizia fascista dilagante ovunque.

Il giorno dopo l’8 settembre un rivolo consistente color rosso vivo si riversò dalla conceria fino al bar. Grande, fiammante, dilagante. Un grande spavento. La storia ebbe il suo giorno di gloria al bar. Era solo vernice, quella volta.

Il bar ospitava ancora molte persone che si scrutavano con sospetto e, quasi, con paura.

I partigiani si defilarono sui monti, ci furono scontri, il mio dottore scompariva per giornate intere. Era “in montagna” a prestare la sua opera di medico. Scopri che la mia insegnante aiutava i gruppi partigiani. All’inizio si trovavano al bar, apertamente, poi un po’ meno e alla fine di nascosto, ma ancora al bar.

Il paese una sera rimase silente nel buio. Il bar chiuso con le serrande giù. Qualcuno venne a bussare alla porta di casa nostra, la casa in affitto per l’estate e che era diventata per davvero la nostra casa, dato che con l’Italia tagliata in due non c’era modo di raggiungere Roma: occorreva avventurarsi. Cosa che facemmo in due riprese, ma questa è un‘altra storia.

Parlottio sommesso tra mio padre e mia madre con due giovani affranti, allo stremo, i volti tesi, sconvolti. Li vedevo dalla porta aperta della mia camera che dava nell’ingresso. E poi li conoscevo, mi aiutavano coi compiti, erano amici dell’insegnante. Parlavano un buon italiano. Anche loro si erano seduti spesso al Bar. C’erano state anche canzoni e fisarmoniche col mantice ansimante, stretto e largo, musica e parole in melanconica lingua sconosciuta. Altri cantavano I ribelli della montagna. Altri Fischia il vento.

Subito dopo mamma venne in camera mia, ero a letto con qualche linea di febbre e mi portò in camera sua nel lettone: disse che doveva rifare il letto e alle mie domande stupite rispose che era una richiesta del medico. Dalla porta semiaperta vidi i due giovani, aiutati da mio padre portare dentro dei fagotti e il mio letto fu abbastanza maneggiato e il materasso rivoltato più volte e quei fagotti furono messi sotto. Poi, mio padre alzò gli occhi e incontrò i miei. Sorrise, ma venne a chiudere la porta. Una voce, dal tono rauco e sommesso che riconobbi per quella di uno dei miei amici frequentatore del bar disse: Grazie, grazie. E quella di mio padre, pressante, che li spingeva, materialmente, fuori. Verranno anche qui, disse. Dio vi protegga.

Poi, all’improvviso erano tutti in camera. Papà, mamma e le mie due sorelle. Mia madre prese un libro e cominciò a leggere. Mi meravigliai perché non era quello iniziato: in casa era un’abitudine leggere un libro insieme, cominciava mamma, poi papà e poi la sorella più grande, l’altra e infine toccava a me. La tv non aveva cancellato ancora quella splendida abitudine Ma quello non era il libro che avevamo iniziato. Era un libro che mamma non riteneva adatto ai miei nove anni. Mi meravigliai, ma non ebbi il tempo di fare domande perché ci fu un violento bussare alla porta e uno scampanellio insistente.

Continuate, disse papà, e andò ad aprire.

Domande, risposte. La voce di mio padre, calma, tranquilla, la voce di un libero professionista abituato a dibattere. Voci concitate, violente, che si aprivano un varco nella casa. Poi, di nuovo, mio padre.

Entrate, disse, se volete. C’è solo la mia bambina più piccola a letto con la febbre, e mia moglie e le altre due mie figlie che le tengono compagnia.

Erano in quattro, li avevo visti, seduti al bar, a porre domande a molti altri in piedi davanti al loro tavolino, capi e dipendenti. Loro bevevano caffe e mangiavano ciambelle all’anice senza offrirne, non era l’atmosfera del solito bar.

Era la polizia fascista. Stivali e soprabiti lunghi. Occhi acuti e inquisitori. Passarono la stanza e gli occupanti al setaccio, frugando ogni angolo. Uno si diresse all’armadio, un altro alla porta di comunicazione con la stanza dei miei genitori. La voce di mio padre li frenò.

Cosa state facendo?

Dobbiamo vedere.

Cosa? disse mio padre. Questa è una casa privata, casa mia. Avete bisogno del mio permesso. Non potete fare il vostro comodo.

Va bene, disse uno. Ma dobbiamo dare un’occhiata. Lo sapete chi stiamo cercando.

No, disse mio padre, non lo so. Non potete spaventare così la mia famiglia.

Mia madre era pallidissima, le mie sorelle paralizzate.

Cerchiamo gente pericolosa, criminali che complottano contro la patria.

E li cercate in casa mia?

Dovunque, possono essere qui, nascosti.

State dicendo che io

Magari in buonafede, si intromise uno che non aveva mai parlato, magari non lo sapete. Qui la gente è sempre così amichevole. In apparenza. E poi è la prassi.

Le ultime due parole furono fredde, gelide, incise col coltello nell’aria.

Mio padre spalancò l’armadio e la porta della camera da letto.

Fate alla svelta, disse, di là ci sono le altre camere. E chiudete la porta quando uscite.

Continua cara, disse a mia madre e lei riprese a leggere.

Trepestio nelle altre stanze, cassetti aperti, porte sbattute, tintinnio dei vetri delle porte finestre dei balconi spalancate.

La voce di mia madre leggeva parole e parole e mio padre, seduto sul bordo del mio letto ascoltava, il viso di pietra. Le mie sorelle erano sul lato opposto a quello dov’era mio padre.

Abbiamo finito, scusate il disturbo signora. Sulla soglia si era affacciato quello che aveva parlato per ultimo.

Prendetevi cura di vostra moglie e delle vostre figlie. Siete forestieri. Non immischiatevi. Forse dovrete trovare un altro dottore per vostra figlia. Oggi non si trova, forse è a Macerata, forse a Camerino. Forse a Matelica. Chi sa se torna.

Il nome del padrone di casa era noto, tuttavia uno dei fascisti, gli aveva consigliato, vedi intimato, di non immischiarsi in quella tragedia e di badare alla sicurezza della sua famiglia. Ma, egli non lo sapeva, non era nel carattere dell’uomo restare a guardare. Troppo e tragicamente colpito da orride vicende e decisioni che lo avevano lasciato con la bocca troppo e tragicamente amara.

 

Mio padre si alzò e li affiancò fino alla porta, senza rispondere.

Quando tornò si appoggiò allo stipite e sembrava non riempire l’abito che indossava : mia madre immobile con il libro in mano, le mie sorelle strette l’una all’altra, io sentivo il materasso pieno di bitorzoli.

Santa Vergine, disse. Mia madre lo raggiunse, un dito tra le pagine del libro per non perdere il segno. Mio padre ci guardò. Figlie mie, disse con le braccia protese.

Sentimmo vociare per le strade, nella piazza dove si affacciava il nostro balcone. Rumore di passi in corsa,

Alt, urlati acidamente, qualche colpo secco. Fu la prima volta che udimmo degli spari. Di fratelli contro fratelli. Vittime della ribellione all’accecamento prodotto da ideologie perverse.

Il giorno dopo al bar non si parlava d’altro.

Perquisizioni in cerca di armi, di uomini nascosti, di feriti partigiani. Ricomparve il dottore. Mio padre lo trovò al bar, per il solito caffè, a mezzodì, avvisandolo che la sua bambina più piccola aveva ancora la febbre. (Io non capivo perché non potevo alzarmi, il mercurio del termometro non segnava febbre e su quel materasso fattosi così duro e pieno di bitorzoli era scomodo starci. Era tutto strano, non era normale. La notte dormìì nel lettone e finalmente al risveglio potei alzarmi e quando tornai nel mio letto non c’era traccia di bitorzoli).

Nota del bar: Fratelli contro fratelli, poi i nazisti e fu dura, e il colore rosso annegò le strade, e non era vernice, insieme a lagrime e lamenti. Morirono slavi, italiani, uomini e donne, sacerdoti e ragazzi e alla liberazione si scatenarono altre storie. Mario, che andava all’università in divisa GUF fu picchiato a morte e non aveva fatto altro che quello, ma non morì e passò il resto della vita su una sedia a rotelle. Molti furono sepolti nei cimiteri lontani da casa. Altri cambiarono casacca e continuarono felicemente a vivere là dove erano stati causa di morte e la vita riprese a scorrere e anche il bar continuò, non so se con la stessa gestione. Avevo nove anni e non ci sono più tornata.”

 

 

Nota 2: in quella enorme tragedia di odi e di sangue, che ancor oggi divide e semina discordia odio e tragedie non sopite, un uomo nelle Marche si distinse per una pietas che non era rivolta solo ad una parte. Era pietas universale che coinvolgeva e ancor oggi più che mai coinvolge il genere umano nella sua interezza, senza distinzioni. Il suo nome era Mario Depangher, un uomo, un partigiano, un onesto, e, in più intriso di pietas, quel suggestivo quasi inspiegabile termine latino che qualifica i grandi. La sua includeva compagni e avversari e gli lasciò la vista chiara e i sentimenti non inquinati da pregiudizi e vendette a tutti i costi. E questo era difficile in quel clima arroventato di guerra civile, annegato in una lunga scia di sangue, dal titolo di un libro documento di Raoul Paciaroni sulla guerra e le sue vittime nelle Marche tra il ‘43 e il ’44.

Quella stessa pietas che aveva spinto un uomo a nascondere armi sotto il materasso della sua bambina, anche se così facendo metteva a repentaglio la sua vita e quella dei suoi, ma ne salvava molte altre.

 

Oggi che ognuno rivendica i propri meriti e la propria verginità e non riconosce né gli uni né l’altra alla parte avversa, oggi che riteniamo di essere stati tutti dalla parte giusta e lo siamo tuttora, ma quante parti giuste esistono mai – oggi che ci prepariamo a votare per qualcuno e per qualcosa, ma quanti qualcuno e qualcosa esistono mai – con tante troppe scie che ad ogni passo, si formano su un marciapiede, su un ponte, in un’enclave e molti hanno dimenticato cosa significa fuggire dalla persecuzione, non avere uno stato proprio, abbandonarsi tutto alle spalle : che la memoria sia un tesoro, oggi.

Per una volta all’anno è bello sentirci Aladino, Alì Babà e, appropriatamente, Giufà e tenendoci allegramente per mano con loro girare in tondo vorticosamente allontanando – sarebbe ora –  i ladroni quaranta o quarantamila o quattrocentomila che siano urlando mentre gli allunghiamo quaranta quarantamila o quattrocentomila pedate all’unisono, “affaccia affaccia ammuccia ammuccia due di qua e due di là vi sparo fuori” e guardare allibiti i ladroni che scappano impauriti mentre insieme a Giufà vediamo scorrere quattro rivoli della pipì che non siamo riusciti a contenere e … ci impadroniamo del tesoro lasciato nella caverna dove tutti, gli uni all’insaputa degli altri, ciascuno per le sue necessità, si era infrattato.

Un sogno, uno della saga di Giufà.

La favola di Giufà e i ladri.

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MOMIX X SEMPRE

Dom 19/11/2017 - 00:02


M O M I X di Tracce

Impadronirsi dello spazio, soggiogare l’aria, Colorare l’aria, plasmarla, concretizzarla.
Creare sculture nell’aria, con le forme, la luce e le luci, quel buio saettante dei bagliori precisi di Caravaggio. La minuziosa tecnica dei movimenti che gli occhi a volte non riescono a seguire ma riterranno come una post-immagine fluttuante quando repentino tornerà il ricordo acceso dal passaggio veloce di una moto, dal ritmo incalzante del braccio di un nuotatore perso in una maratona di mare, dalla caduta morbida di un petalo che si stacca, dall’impatto sul corpo di una palla. O è un eremo aspro che satura la mente, Francesco che parla agli uccelli.
M O M I X alias Moses Pendleton.

Nulla c’è, nulla di nuovo da dire, nulla da scoprire. E’ un prestigiatore e un illusionista, sarebbe interessante assistere ai provini per nuovi danzatori. Come farà a capire chi si confa’ al nuovo progetto, come potrà allinearlo e farlo combaciare con gli altri, a cosa pensa mentre firma palline da baseball nel ridotto del teatro nell’intervallo o alla fine dello spettacolo. Sempre attento, garbato, pronto a concedersi e a concedere la sua attenzione.

E’ successo : una volta dopo aver firmato qualche centinaio fra palle da Baseball (che davano il nome allo spettacolo’, locandine, cappellini, programmi che gli tendevano mani e mani protese, serrato nel pigia pigia di una discreta selva di corpi dalla quale non si difendeva e alla quale non si sottraeva, mentre il campanello sospingeva di nuovo in sala le persone, tranquillamente tolse da un paio di mani l’ennesimo programma impedendo con energia che il corpo cui appartenevano si ritraesse senza aver raggiunto il traguardo dell’autografo. ‘ So, wait a minute ‘ ‘Just a minute. What’s your name ? Don’t hurry. You have a name, dont’t you.-
E su quel nome firmò l’ultimo autografo della serata.

Sorrise e si voltò per andarsene, ma dopo due passi girò sui tacchi disegnando un fluido movimento da danzatore “Be careful, dont’you have another bit of paper ? No? So I.” agitò le mani. “ Be careful, indicò il programma, … the paper… penn ball, the ink that’s no ink .. Fece una pausa, sorry I dont’ speak italian …yet…”
Come dimenticare quella gentilezza, così inusitata nel mondo di oggi, quella semplicità.
Questo evento che celebra, ad oggi, 37 anni di attività è di nuovo ospitato all’Olimpico in Roma restaurato dopo l’incendio di anni fa. Allora gli spettacoli furono dirottati nello storico cineteatro, ex dopolavoro dei ferrovieri, “Italia” nel quartiere Bologna. Pochissimi furono i rimborsi e i ritardatari dovettero rinunciare perché non c’erano ulteriori date causa il programma blindato della compagnia in altri luoghi.
Fu così che in Italia, si recise il cordone ombelicale fluttuante e colorato che segnò la nascita dei Momix, esattamente trentasette anni or sono al Teatro Nazionale in Milano, il 10 giugno 1980. Il padre, all’anagrafe, Moses Pendleton.
Coloro che hanno seguito i Momix, come fanciulli persi dietro le note del pifferaio incantatore sanno che all’inizio furono i Pilobulos dei quali, insieme ad altri, Moses Pendleton fu il fondatore per distaccarsene anni dopo all’inseguimento del suo personale iter. Un inquieto e allo stesso tempo assorto sognatore incantato a sua volta da Dada, da Artaud, e molti altri fra i maggiori maestri contemporanei, doveva giocoforza creare un’atmosfera che fosse solo sua e di chi di volta in volta si è prestato a condividere il suo alternarsi d’ombre, di luci, di movimenti, di fantocci. Sì, anche Moses Pendleton ha coinvolto i fantocci, robot, come egli li identifica, nell’altro da sé o in sé, in parallela visione.

Les poupées electriques di Marinetti, si immettono magari a sua insaputa per partecipare in un volteggiare di movimenti aerei, incollati ai corpi veri, una gamba più lunga dell’altra per accentuare e assecondare l’andamento immaginato e realizzarli.
Fantocci, marionette, burattini robot, l’altro da sé che molti negano con condiscendente superiorità far parte del mondo reale, del mondo adulto relegandoli al ruolo di giocattoli per l’infanzia, insieme alle maschere con totale supponenza e ignoranza. Tuttavia è proprio questo altro da sé che amalgama l’interiore con la superficie apparente.

L’uomo e i suoi simboli recita il titolo di un famoso libro di Carl Gustav Jung.

Ha concesso molte interviste Moses Pendleton, ha scritto un libro/intervista in tandem, si è divertito davanti alle solite domande, dove trovi l’ispirazione, perché Milano come inizio, come sono i tuoi stages, e i provini; ma non ha mai fissato i suoi spettacoli in un cd, dvd o altro supporto tecnologico. Tutti questi strumenti aggeggi stanno smisuratamente stretti alla sua Alchemia (dal titolo di uno dei suoi spettacoli) o alla sua Bothanica, altro spettacolo impregnato di Vivaldi.
L’ispirazione nasce da una passeggiata, da un fiore, dallo splendore di una sfera d’argento nel neroblu della notte. Come, da che cosa scaturisce un’idea? Come si trasferisce e si compone? Qualcuno all’improvviso incrocia il tuo sguardo. Un occhio strabico per vedere dritto. Ti accorgi che hai guardato senza vedere : nebbia. Il colore di un odore. Il soffritto di cipolla. Una minuscola fragola appena sfiorata da un piede in montagna, il rumore indistinto che fa la sensazione del molle schiacciato, l’urlo smorzato della fragola. I rododendri sconvolti dalla corsa del cane che li ha separati disperdendo il colore nell’aria, annegandolo nel laghetto che hanno alle spalle. Le dita che mancano la presa sulla roccia, l’onda che si sfarina ingannatrice buttandoti giù giù sempre più giù, le dita che addentano la roccia, il risucchio del moto che ti riporta in superficie.
Non lo dice espressamente Moses Pendleton ma la risata che segue il tono grave lo fa intendere. Sempre le stesse domande.
Basta con le cretinate. Da che mondo è mondo gli stages più creativi erompono da momenti in libertà, movimenti in libertà, suoni in libertà, dove i danzatori, gli attori, i coinvolti, si muovono a loro intendimento, abban-donandosi con o senza freni. Da questi momenti concessi voluti imposti nasce…quel che deve nascere.
Così Baseball con il programma sul quale via via stemperano i caratteri della pen ball, ma imprimono a fuoco il momento nel ridotto, e il rincorrersi di corpi, palle, mazze in un caleidoscopio che non vedrai mai imprigionato in un dvd ma irridente, in fuga scanzonata nell’atmosfera : vivo.

Bothanica e le quattro stagioni di Vivaldi., giallo e rosso di fiori, petali, corolle.

Alchemia e gli stregoni e i loro alambicchi.
E di nuovo torna in mente quel primo spettacolo dei Pilobulos, firmato in condivisione : l’incontro fulminante, il grande incantamento. Non gomito a gomito in un teatro dove enormi bolle volano ovunque, ma trasferiti a vortice come un trapezista appeso ai fili di quei globi, in un circo personale, unico incondivisibile, che non si ripeterà mai più. E, invece no, ci saranno altri momenti – come ha detto qualcuno, attimi così, tra virgolette. Incisioni nello spazio di 37 anni (contando i Pilobulos).
Permette, Moses? Se, come dice, ama questo pubblico italiano che ha avuto il privilegio di assistere alla nascita del primo spettacolo targato Momix in Milano, se, come dice, ama i piccoli meravigliosi borghi e le valli montane, si conceda una visita un po’ più a sud di quelli toscani, verso qualche isola magari, San Nicola, alle Tremiti, qualche minima enclave lucana, la scala dei Turchi in Sicilia.
Scusi l’intrusione, scusi la sfacciataggine, scusi tutto, ma vede ce ne sono di meravigliosi anche se non celebrati da registi e scrittori e magari chef o creatori di moda.
E voialtri che vi siete rivisitati le pulci – giusto in Sicilia – al sorgere del giorno dopo tutti vincitori, tutti perdenti , nauseantemente in molti coi carichi pendenti e qualcuno subito arrestato e chi sa che cos’altro ancora e già con il pensiero alle elezioni nazionali a un passo, cogenti, così monotone nei toni smargiassi e negli atteggiamenti comportamentali rilanciandovi a palla da cannone, pardon, missile, la corruzione, l’incostituzionalità, l’antirazzismo, il razzismo e tutti gli ismi possibili e immaginabili, prima di ricominciare, ora che disponete del consuntivo del voto-laboratorio siculo, fateci fare un breve tea time con annessa fetta di torta e lasciateci godere in pace i Momix.
A proposito al te con fetta di torta siete invitati. Magari vi date una calmata e riuscite a guardarvi in giro stupirvi che esista il ciclo delle stagioni, anche se maltrattato, fate attenzione a dove poggiate i piedi per non uccidere un fungo edibile, questo è il tempo.

Sulla seconda di copertina, appena prima del titolo di un libro perso nella memoria c’era e forse c’è ancora un pensiero: “ sul cartello è scritto, non sciupar questi fiori, ma per il vento è inutile.

Il vento non sa leggere.”

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Affreschi luminarie salsicce e balli in piazza

Sab 28/10/2017 - 00:00

 

Ricordi d’estate. In piazza si monta il palco e si appronta la fonica per le esibizioni degli artisti e di chi li accompagna. Prove microfono, luci, addobbi luminosi a ghirlanda adornano soprattutto la facciata della chiesa matrice disegnando il profilo di una Madonnina. E tanti tavoli ordinati alla sinistra del palco in tre file come banchi di scuola e altrettante panche. Sul palco musica e canzoni si alternano annunciate dai bravi presentatori, a terra alle spalle delle tavolate, tre enormi contenitori di salsicce sfrigolanti su grandi griglie sorvegliate da un cuoco altrettanto sfrigolante che sforna quantitativi abbondanti a getto continuo. Il caldo è al massimo, si divora e si balla per smaltire, poi si ritorna a tavola per apprezzare un bel bicchiere di vino o una birra e sul palco si canta e si suona.

La chiesa sorveglia. Sera dopo sera.

Il centro storico è un pugno di fabbricati allineati brevemente in piccole vie che si intersecano.

Un’area di strade larghe e diritte che circonda il centro storico, abitazioni quasi tutte a un piano o due al massimo.

                                                                              Il bar dalla parte opposta alla chiesa è il centro del paese e l’unico “spaccio” di sigarette, giornali, ricariche telefoniche, lottomatica, e perché no, una riserva limitata di generi alimentari latte a lunga conservazione e qualche detersivo. Biscotti di varie marche confezionati in scatole e sacchetti. Ma se si volesse consumare un pasto composto da primo secondo frutta e magari un dolce ? dove acquistare la materia prima ?                                                                                                             Un nebuloso itinerario, scoraggiante, impone di credere sulla parola all’esistenza di un negozio di alimentari ben fornito, ma preferiamo fare come tutti ed eseguire una fornitura da città nei vari supermercati dei centri commerciali a pochi chilometri. Chiaro, occorre la macchina e il sapore del supermercato sa ovviamente di supermercato tale e quale a quello vicino casa in città.

Anche il pane ?  Anche il pane.

Un bel gattone nero sembra entrare nel dipinto a fresco sul muro.

E quel negozio in piazza di lato alla chiesa, la cui insegna recita in chiare lettere “Panificio”.

– E’ un panificio ma non c’è mai il pane.

– E un panificio ma non fa mai il pane ? E che fa mutande, candele, petardi?

– Per fare. Il pane lo fa, ma è per i negozi e gli alberghi della zona, i supermercati.-

– In pratica bisogna andare a comprare il pane nei supermercati o nei negozi a qualche km di distanza invece che nel panificio con forno annesso a km zero, anzi a metro zero. Per chi sosta in piazza in compagnia del gatto nero.                                                                                                                                                 – E’ duro ammetterlo, ma è così. Prima sfornavano anche i cornetti e la pizza: i cornetti caldi…

– Lo viene a dire a chi a Roma andava a prenderseli alle tre di notte in quartiere Prati? A Roma. Prima che vietassero di panificare di notte?

– Però qualche volta si trova il pane, e pure la pizza e i biscotti e – pausa –  i cornetti-

– Ancora! –

Per la cronaca, mai trovato un tozzo, una briciola, un mini cornettino.

L’odore, sì, tutto intorno, lieve come un inganno, una effimera bugiarda parvenza. Un’illusione.

E via al supermercato.

O, con pervicacia da caccia al tesoro in cerca del famoso negozio di alimentari, magari c’è il pane di Roma.

Ci sono buoni forni, ancora.

L’esagerazione è l’esagerazione, magari il pane da Roma se lo porta chi si avventura fin qui per il fine settimana. Due ore, poco meno, di autostrada e i nervi a fior di pelle se capita, come può capitare, che impazziscano tutti i cartelli stradali. In effetti si può uscire dall’autostrada Roma Pescara e trovare tanti di quei lavori in corso o incidenti con conseguente traffico dirottato che invece che in direzione Lanciano ti ritrovi manca poco a Bari. Aggiungi traffico pesante, incolonnamenti a passo lento lento e basta così.                                                                         Tra Tra una chiacchiera e l’altra, col cellulare in mano quello con la macchina fotografica decente, si può apprendere che molti hanno un orticello, alberi da frutto e, soprattutto olivi. Vigneti e olivi che si affacciano tra una casa e l’altra superstiti di ampie zone vendute in cambio cemento.

E, soprattutto, affreschi.

 

Tutte le case recano di lato o sul frontale un affresco. Si sparano scatti su scatti

 

                                                                   

Scene agricole. L’agricoltura è viva, filari di vigne, ordinati e lindi lungo il fianco delle colline, figurine  vagamente chagalliane, trionfi di frutta coloratissimi, frantoi.

Sembra di stare su una giostra.

 

– Visti quelli li ? un anziano signore esorta a fotografare i suoi preferiti.

– E quegli altri, a due passi. E un poco indietro ce n’è uno bellissimo.

La memoria del cellulare è satura.

                                                                   

 

Qui c’è la scuola di affresco.

Slalom per gustare in pace il piacere della scoperta, scattare col sole in testa e negli occhi, chi sa che verrà fuori, non importa quel che resta negli occhi vale di più.

Quella ringhiera è maledetta. Taglia a metà.

– No, signora, troppo gentile, non si scomodi a levare le sedie dal terrazzino, va bene anche così.

Il sudore che cola dalle sopracciglia lungo il naso.

E questo cos’è?

Un cassonettone rettangolare lungo diversi metri con quattro, no cinque bocche e diciture varie per i diversi tipi di raccolta differenziata.

A sinistra una recita : Questa è la tua Isola Ecologica  dove le utenze abilitate possono conferire i rifiuti ben separati utilizzando la Ecolan Card personale.

In effetti non c’è una cartaccia per terra, non c’è una di quelle cose umidicce dove i piedi sprofondano e si alza subito un odore fetido che esprime chiaro chiaro il grado di inciviltà di chi si trova all’altra estremità del guinzaglio che origina intorno al collo del quattro zampe incolpevole.

Ogni tanto a notte fonda si mandano i cani allo sbaraglio e la mattina dopo gli operatori ecologici provvedono a far scomparire le merdarelle dal centro storico. I padroni, si sa, sono noti ma nessuno riesce a coglierli sul fatto cosa che manda al calor bianco il sindaco. Che è giovane e pieno di entusiasmo.’Volessimo’ far cambio con quello di Roma ?  Più che volessimo, ‘potessimo’ ? Tale e quale la periferia e il centro storico di Roma, come qui di seguito illustrato, Corso Trieste, un quartiere molto perbene

 

Via Pola, sede storica della Luiss coi sampietrini che si rincorronio per tutta la lunghezza.

A proposito, ma questo Treglio è in provincia di  Bolzano ?

O di Merano ? o Bassano del Grappa ?

Certamente non siamo a Cefalù dove non si fa quasi più raccolta differenziata e i grandi cassonetti con le varie diciture sono sommersi da pile di sacchetti di plastica diligentemente indifferenziati e non riciclabili tutti ammassati gli uni cuore a cuore con gli altri; smaltire la raccolta indifferenziata pare che costi meno di quella differenziata,

Sveglia! Qui siamo a Treglio, in Abruzzo, in provincia di Chieti.

E si finisce contro un’abitazione senza affreschi ma una rosa dei venti a terra e un invito agli amici più cari.  E il tramonto che si spegne in una vetrata.

Treglio, provincia di Chieti, fine estate 2017

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Spazi temporali convergenti all’infinito

Sab 23/09/2017 - 00:08

 

TEMPI convergenti all’infinito   di Tracce

Un monacello che si avventura su per un’erta e all’improvviso fa un balzo perché mettendosi ritto si è trovato sospeso sul mare e si avvinghia a un provvidenziale albero maestoso. Evita di guardare in basso il cammino che ha percorso.

Fa un effettaccio specie in pancia. Non è come affacciarsi  da una spianata, il sentiero da capre che ha percorso lo ha proiettato nel vuoto assoluto. Va avanti perchè vuole togliersi di lì e mettere i piedi e se stesso in piano. Una volta in salvo con pietre e buona volontà costruisce un eremo in rendimento di grazie a S. Giovanni Battista per non essere precipitato e per qualche altro motivo, ignoto. Vorrebbe tramandare il suo segno e si fa raggiungere da altri confratelli di buona volontà per raccogliere e mettere in loco pietra su pietra la ”fabbrica”.

Non fanno a tempo a tirare il fiato i monacelli che si susseguono nel tempo: e quasi subito nell’847, prorompe un terremoto preceduto e accompagnato dall’ululato dell’aria che penetra con fragore nelle crepe che scuciono il suolo e affondando nel mare moltiplicando vortici mentre il fondo si solleva spazzando e riducendo in frantumi la piccola sfida.

Voci.

– Ma chi v’ha mandato a voi ? –

– Il conte Trasmondo da Chieti, siamo mastri e dobbiamo costruire un monastero, con una cripta e con due chiostri e non basta anche una scuola per i benedettini e il loro abate.-

– Certo che livellare il suolo sarà un problema.-

Trasmondo un conte chietino e dopo di lui suo figlio Trasmondo II con tutte le carte in regola, con le maestranze e quel che necessita. Una ridda e una gran confusione che il tempo s’incarica di incasellare. Una quantità di personaggi in corteo o a gruppi.

Altre voci.

Oderisio – Fu per merito mio che l’abazia fu radicalmente ricostruita. –

– Tu, si rivolge a un abatino che vorrebbe essere trasparente, tu Odone la mandasti in rovina. –

Odone, si fa piccolo piccolo e non risponde.

– Io, Oderisio ,nel 1165, con maestranze borgognone  la resi pari alle cattedrali d’oltralpe ed è rimasta il primo esempio dello stile architettonico cistercense.che si sta diffondendo in Europa.  Con buona pace della cattedrale di Chartres. Chi ha fatto costruire arcate ogivali o quasi  e colonne con capitelli che sanno di stile borgognone?-

E’ un  vanto”.E’ il vanto.

Non ci sono più ciottoli, pietre, saliscendi, arbusti ed erbe selvatiche le uniche ad alleviare il passo, fino ad allora, disagevole dei monaci. Non si inerpicano più, raccogliendo la tonaca e ferendosi piedi e mani, madidi di sudore o congelati dalla neve ghiacciata. Andando per questua o lavorando l’orticello sotto la chioma centenaria di quello stesso albero al quale si era aggrappato  preda del terrore e delle vertigini un monacello che non c’è più

Il terzo personaggio si fa avanti scostando i due e ponendosi al centro, critico gira intorno lo sguardo.

Cogitabondo gonfia il torace.

Stili che si sovrappongono a stili, perché ispirati a qualcosa a San Zeno, Verona nientemeno, e ai pisani, con Nicolò e suo fratello Giovanni con un certo, perfino, un certo che di islamico e giù per Ancona e il Duomo di Monreale, la Sicilia, nientemeno!

– E questo che appena arrivato smorza la luce sugli altri due e li confina  indietro chi è? Guarda che abito che copricapo questo qui ha l’aria di tutto rispetto, magari è un cardinale, il papa. Vedi che faccia piena di energia. E quell’altro ? Ha anche una cotta di ferro, col mantello d’oro, si toglie l’elmo e qualcuno gli pone in capo una corona. – Il popolo si assiepa attonito, intimorito, riverente, abituato a subire le novità.

Non è un cardinale, tantomeno il papa. Colmo di ambizioni e di tenacia. Si inchina al grande imperatore, con reverenza, si rialza mostra qualche pergamena all’altro che si è abbandonato, con grazia, su una imponente poltrona appena portata.

– E sia Rainaldo, te li concediamo questi maledetti –  Federico II si fa il segno della Croce con compunzione – benedetti benedettissimi privilegi,  te li concediamo i beni spettanti così mi ti levi finalmente di torno e soddisfi anche le tue inclinazioni per l’arte. Nell’anno di grazia 1227, ti siano concessi.

E il grande Federico II amante delle arti e incuriosito e anche suggestionato concede e si concede con munificenza, abbondanza, grandiosità in un tripudio di mani alzate,osannanti in rendimento di grazie al Signore che forse sta considerando le sue spine e la sua carne offesa.

Frate Francesco, frate Francesco che butta giù i tetti e fuori dalle case i suoi che le hanno costruite  e chi preferisce rimanere si trasforma in conventuale.

Si ricomincia tutto dalla traccia delle fondazioni, dalla pianta basilicale, semplice con tre absidi semircolari con le arcate sostenute da pilastri.

Le maestranze, stanno completando l’esterno : io decoro, tu scalpelli, fra polvere e vento, ma non dobbiamo stonare col tufo scuro che non si tocca e che compone la parte bassa appena sotto.

 

– Fa’ attenzione, è del tempo di Oderisio, urla qualcuno mentre qualcun altro nel 1346, si accinge a completare la parte superiore. Ahi che sole che vento che gelo con il tempo che va e si scompone, salti temporali che si intersecano.

– Guarda, ecco qua è segnato, sul portale centrale, io faccio i bassorilievi, tu segui l’elenco e fa’ la vita del Battista. Non sbagliare. Hai presente S.Zeno, la cattedrale di Carpi e Monreale? Voialtri lassù, dovete seguire l’abbozzo, uguale lo vuole a quello che ha visto a Palermo, isl…malic…che so ecco è segnato islamico, boh

– Non sarà pisano?

– Sarà anche pisano. Questo è il bozzetto. Seguitelo.

– Equilibrio ci vuole equilibrio ritmo come in musica.-

Scalpello in mano lo agita nell’aria e dirige la sinfonia del vento che si alza dall’erba del prato fra i rumori e la polvere per comporre, in alto, una policromia.

 

Intorno e all’interno una coda multicolore di damaschi sete velluti ferri e splendenti armature, singoli o in coppia, le mani delle dame posate come farfalle in quelle maschili, si snoda ondeggiando. Festa medievale ? I costumi appartengono a diverse epoche ?  carnevale, festa di episcopello?  Quell’unica notte nel corso dell’anno, durante la quale il popolo, che assiste fremente, non vede l’ora, smania nell’attesa di approfittare della concessione di prendersi liberamente giuoco del potere laico ed ecclesiale. In maniera feroce; in barba a sbirri ispirati dagli amanuensi eccelsi nell’arte di osservare e riportare per iscritto. Maschere e travisamenti, oscenità riversate sui potenti, licenze sguaiate che colano grasse parole flatulente. Semel in anno insanire licet. Sì, ma occorre stare attenti perché anche i potenti sono lì che aspettano e non vedono l’ora di far pagare il fio, con qualche rara eccezione.

E il povero episcopello, adeguatamente addobbato un po’ impaurito anche se euforico e montato su un asinello altrettanto magnificato da una bardatura che lo annoia molto, dopo la festa cerca di starsene alla larga.

L’abate si avanza, maestoso, ambizioso. Osserva.

Il presbiterio è in alto a tre navate e vi si accede per una vasta gradinata di notevoli proporzioni in accordo maestoso e solenne.

FOTO 10  VIDEO

 

Silenzio solitudine voglia di concentrazione. Tutti allineati in file geometriche, i sai bruni, le mani raccolte, gli occhi persi. Silentium. Un vago canto vocale sullo sfondo  tra le navate a movimento circolare e colonne massicce che sostengono arcate di stile diverso a sesto acuto o a tutto sesto come le ha comandate il soffitto. Alla fine del XII sec. L’opera può dirsi compiuta compresi gli affreschi della cripta, attribuiti a Luca Pollustro da Lanciano che si inseguono con moto circolare per adeguarsi alla circolarità.

Questo è il monastero, l’abazia di San Giovanni in Venere, ognuno lo chiami come gli garba come appare nel XXI secolo, nato dalle fondamenta di un tempio pagano dedicato a Venere Conciliatrice. Cancellato. Trasformato come tutte quelle feste pagane scivolate in religiose. Imponente, severo, sovrastante le formiche che si agitano alla base, freneticamente affaccendate ad allestire, oggi come nei secoli passati, una tavolata : una linea bianca ondulata che segue l’andamento del paesaggio. Moto perpetuo avanti e indietro di persone che continuano ad allungare la linea e stendono tovaglie dopo tovaglie, posano forchette dopo forchette e bicchieri dopo bicchieri, piegano tovaglioli dopo tovaglioli in forme varie. Voci che si inseguono. Un banchetto dell’associazione che oggi festeggia una qualche ricorrenza, 120 persone, persona più persona meno. E si sente odore di cucinato.

I banchetti convergono all’infinito nel tempo.

Nota : Per chi volesse approfondire consiglio l’ampia bibliografia che riguarda e testimonia l’interesse dedicato da eminenti studiosi fra i quali ricordo con rispetto e affetto le lezioni tenute alla Sapienza di Roma, da Lionello Venturi alle quali accedevo pur essendo ancora liceale e talvolta saltando le lezioni del mio liceo Giulio Cesare.

Bibl.: Fonti. – V. Bindi, Monumenti storici ed artistici degli Abruzzi, Napoli 1889; P. Pollidoro, De Promontorio et Vico Veneris, Rocca et Arx S. Johannis in Venere, De Ecclesia et Monasterio S. Johannis in Venere, ivi, pp. 351-374.                                 Letteratura critica. – E. Bertaux, L’art dans l’Italie méridionale, Paris 1903 (19682), II, pp. 526-531, 589-591; Venturi, Storia, III, 1904, pp. 525, 719-720; V. Zecca, La basilica di San Giovanni in Venere nella storia e nell’arte, Pescara 1910; A.K. Porter, Il portale romanico della Cattedrale di Ancona, Dedalo 6, 1925-1926, pp. 69-79; I.C. Gavini, Storia dell’architettura in Abruzzo, I, Milano-Roma [1927], pp. 15-17, 157-161, 203-205, 407-415; Toesca, Medioevo, 1927, pp. 609, 726 n. 2, 846-858, 907-908 n. 72, 969; G. Matthiae, Architettura medievale nel Molise, BArte, s. III, 31, 1937-1938, pp. 93-116; R. Wagner-Rieger, Die italienische Baukunst zu Beginn der Gotik, II, Süd- und Mittelitalien (Publikationen des Österreichischen Kulturinstituts in Rom, 2), Graz-Köln 1957, pp. 87-90; I. Maksimovic, Simon Raguseus (sec. XIV), Archivio storico pugliese 14, 1961, pp. 191-206; F. Jacobs, Die Kathedrale S. Maria Icona Vetere in Foggia, Hamburg 1968, pp. 78-101; M. Moretti, Architettura medievale in Abruzzo (dal VI al XVI secolo), Roma [1971], pp. XXV, 268-281; id., Restauri d’Abruzzo (1966-1972), Roma 1972, pp. 88-95; L. Cochetti Pratesi, La Scuola di Piacenza, problemi di scultura romanica in Emilia, Roma 1973, pp. 90-91; H. Buschhausen, Die süditalienische Bauplastik im Königreich Jerusalem von König Wilhelm II. bis Kaiser Friedrich II. (Österreichische Akademie der Wissenschaften. Philosophisch-historische Klasse, Denkschriften, 108), Wien 1978, pp. 343-356; V. Pace, in L’art dans l’Italie méridionale. Aggiornamento all’opera di Emile Bertaux, Roma 1978, V, pp. 707-708, 741; M.S. Calò Mariani, ivi, pp. 813, 828; M. Cecchelli Trinci, Cripte abruzzesi e molisane (IX-XIII secolo), in L’architettura in Abruzzo e nel Molise dall’antichità alla fine del secolo XVIII, «Atti del XIX Congresso di storia dell’architettura, L’Aquila 1975», I, L’Aquila 1980, pp. 39-56: 43-53; S. Episcopo, I rilievi del S. Giovanni in Venere a Fossacesia, ivi, pp. 57-66; F. Bologna, Santa Maria ad Ronzanum, in La valle Siciliana o del Mavone (Documenti dell’Abruzzo teramano, 1), Roma 1983, pp. 147-234; O. Lehmann-Brockhaus, Abruzzen und Molise. Kunst und Geschichte, München 1983, pp. 86, 108-109, 137-138, 153-158, 175-181, 323; M. Andaloro, Sulle tracce della pittura del Trecento in Abruzzo. I dipinti murali della cripta di S. Giovanni in Venere presso Fossacesia, in Storia come presenza, Ancona 1984, pp. 23-44; M.S. Calò Mariani, L’arte del Duecento in Puglia, Torino 1984, pp. 37-45; A.B. Di Risio, L’abbazia di S. Giovanni in Venere, Milano 1987; F. Gandolfo, Arte romanica in A.M. Romanini, Il Medioevo (Storia dell’arte classica e italiana, 2), Firenze 1988, pp. 269-357; F. Aceto, ‘‘Magistri’’ e cantieri nel ‘‘Regnum Siciliae’’: l’Abruzzo e la cerchia federiciana, BArte, s. VI, 75, 1990, pp. 15-96: 47-58; M.L. Fobelli, L’abbazia di San Giovanni in Venere, in Chieti e la sua provincia. Storia arte cultura, I, Chieti 1990, pp. 293-304; F. Gandolfo, L’esperienza del Medioevo, in Teate antiqua. La città di Chieti, Chieti 1991, pp. 171-208.

 

 

 

 

 

 

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Palermo : afa e antichi palazzi

Ven 18/08/2017 - 01:04

Quando il caldo si fa duro e c’è la caccia ai saldi, generalmente l’alzataccia è di rigore in modo da essere sul posto all’apertura.

Palermo non fa eccezione e le temperature italiane da Torino in giù confermano. A parte qualche mitragliante grandinata e qualche diluvio dilagante lo conferma anche la secca del Po.

Palermo è una gran bella città, poliedrica, multietnica, stravagante, colpevole anche di atti imperdonabili e vili come quello commesso ai danni dell’effigie di Giovanni Falcone in una scuola a lui e a Paolo Borsellino intitolata e dove è particolarmente curata la cultura illuminante della legalità e della memoria di quanto Giovanni Falcone ha fatto non solo per la Sicilia ma per l’Italia e il mondo. Ne fa testimonianza l’uso adottato da ogni tipo di investigativa del suo metodo contro la criminalità organizzata.

Che a Palermo a cavallo tra due date il 23 maggio e il 19 luglio si sia potuta usare la testa della statua di Giovanni Falcone per farsi strada all’interno della scuola è abbassante nei confronti della dignità e del pensiero dei palermitani che continuano a portare avanti quanto egli ha iniziato. E tutto quello di cui ha lasciato il segno. I suoi atti lo seguono, parafrasando il titolo di un libro. E devono essere seguiti dalle persone di buona volontà, degne di chiamarsi esseri umani pensanti. Sono questi bruti incapaci di pensieri autonomi che ispirano ribrezzo, prezzolati, comprati, con un nulla, fieri del loro nulla che al nulla li conduce.

Gente indegna. Altri sono i segni che Arabi e normanni hanno lasciato Gli arabi ci hanno dato lo zero, senza il quale saremmo ancora in un mare di incertezze e molta architettura. E ancora : monumenti normanni e gotico normanni sorgono per ogni dove. Qui Ciullo D’Alcamo ha pensato e scritto per primo in italiano la sua poetica. Qui ha avuto inizio la nostra lingua italiana che molti oggi torturano.

Botteghe e bottegucce di spezie e pietre orientali riempiono la vista e penetrano le narici e ad un angolo appaiono belle donne in sari dai ricami d’oro su tessuti aerei e scintillanti, altre a capo coperto rigidamente abbigliate di nero e altre ancora vivacemente sottolineate da abiti ridondanti di toni di colore acceso blu verde giallo arancione.     Gli uomini si accontentano di abiti quasi sempre occidentali. Non hanno regole rigide da osservare, le donne, se pure una minoranza, sì. Questa è via Maqueda, si può pronunciare alla spagnola o all’italiana non fa differenza, forse un lieve snobismo sottolinea la discendenza da chi la tracciò, Bernardino de Cardenas duca deQuemada, vicerè di Sicilia. Via Maqueda ha una storia antica. I quattro canti di citta, i quattro canti di campagna, quadrivi formati dal suo incrocio con altre strade e, agli angoli dei palazzi che delimitano i canti, statue che rammentano gli omenoni di Milano

 

 

Una strada costituita di nobili palazzi che è andata via via decadendo come i suoi proprietari, gli abiti di broccato si sono sfilacciati,le facciate sgretolate, gli ampi portali fatiscenti danno su cortili favolosi ornati di loggiati maestosi e leggiadri e precari a seconda dell’origine dell’architettura e del trascorrere del tempo. Nobili e decaduti. Cadenti. Poco più avanti la fontana della vergogna, così denominata per via della nudità delle statue e dove troneggiano i quattro fiumi di Palermo, Oreto Papireto, Gabriele e Maredolce, scolpita in marmo di Carrara, destinata al giardino di una villa fiorentina e dopo alterne vicende acquistata dalla città di Palermo.

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L’antefatto per spiegare l’inspiegabile : il fascino che Palermo esercita.

Calura a oltranza, pochissima ombra, asfalto che manda arrosto piedi e gambe, il resto del corpo  è compito del sole grigliarlo. Palazzi e cortili che danno, si è detto su atri e cortili, di un bianco sporcato da secoli, piastrellato in modo oramai ondeggiante, ballano un cadenzato tip tap. Le mura dei cortili mostrano brecce e pietre crepate. Di ombra neanche l’ombra, ma c’è un cartello d’invito ad una mostra e, all’interno, il ricordo delle camere dello scirocco degli arabi e dei nobili, scavate nel tufo , nei sotterranei per dare agio e ristoro dalla calura. Le sale di esposizione sono quelle dell’archivio storico della città, si compenetrano, danno una nell’altra e sfociano nelle sale dell’archivio dalle pareti di legno lucidissimo, raggiunte da una  monumentale scala a chiocciola, alte più o meno quanto il palazzo con delle immense bacheche al centro dove sono esposti i documenti relativi al teatro :  Antiche locandine, piante disegnate e acquarellate di teatri, conteggi di spese, uno spartito di Donizetti manoscritto, ricordi del popolo palermitano e dei nobili accomunati nel divertimento : una mostra ormai chiusa ma che si può ancora visitare, incompleta. – “Teatri e vita musicale a Palermo (1750-1850). Testimonianze bibliografiche e documentarie”a cura di Eliana Calandra e Antonella Balsano.

 

 

Dal pieghevole : Attraverso l’esposizione di oltre un centinaio di documenti (tratti dal fondo Amministrazione teatrale dell’Archivio) e libretti d’opera (appartenenti al patrimonio della Biblioteca), la mostra offre uno spaccato sulla vita  dei teatri e della cultura musicale a Palermo in un periodo – a cavallo tra il Settecento e l’Ottocento – ricco di fermenti e di grandi e piccole realtà teatrali – dal teatro Carolino, al S. Cecilia, ai teatri “effimeri” alla Marina, in un contesto di vivacità culturale che già preannuncia la felice stagione dei nuovi grandi teatri cittadini di fine Ottocento.

 

Si tratta di una documentazione originale preziosa per illuminare i diversi aspetti della gestione dei teatri, da quello relativo alla pubblica sicurezza, disciplinato da norme ben precise, a tutte le spese necessarie per la manutenzione delle strutture e la messa in scena delle opere; dai rapporti e scambi culturali con teatri nazionali ed esteri alle complesse e delicate dinamiche del rapporto tra impresari privati e amministratori locali.

 

E’ divertente notare molte analogie tra gli usi e i costumi di Palermo e di Roma, gare ippiche, nautiche, combattimenti, concerti di bambini prodigio, melodramma, commedie e tragedie, all’aperto o al chiuso;  folle che si accalcano – Piazza Marina come piazza Navona  se pure in tempi diversi.

 

La nostra guida, competente ed entusiasta,  Valentina  Di Fazio,indica i documenti di maggiore interesse, le curiosità, racconta la storia , si può dire, di ognuno.

Al suono della sua voce è come se i fogli prendessero vita si sentono le dita del ragazzo prodigio che pigiano i tasti del pianoforte, i piedi dei danzatori che battono sul parquet, i vestiti che frusciano mentre gli spettatori prendono posto, il denaro che cambia di mano al momento dell’acquisto dei biglietti, la penna intinta nell’inchiostro che traccia segni sul foglio dei rendiconti.

 

                                                                                                           

E “ sì, è permesso fotografare”.

 

Una mostra un po’ diversa.

 

 

A rivederci Palermo

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