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Aggiornato: 1 ora 53 min fa

FOGLIE DI PIETRA

Mar 20/06/2017 - 01:00

Un giorno qualcuno si è svegliato e ha deciso di donare ai romani un albero.

“Che da oggi, con quest’opera, avranno uno spunto di riflessione in più – commenta lo scultore autore dell’opera  Giuseppe Penone – con un intreccio di antico e contemporaneo che li stupirà”. Questo, “anche grazie ai materiali utilizzati – aggiunge il critico Gioni – legati alla storia della cultura che l’artista ha iniziato a usare sin dagli anni Settanta, ma che rievocano una natura viva”.

A onor del vero non si tratta di una novità, date le sculture di Pomodoro e Consagra ed altre che da anni sono posizionate in modo da “sorprendere” i romani che troppe ne hanno viste nel corso dei secoli per stupirsi. Per non parlare dell’EUR che ancor oggi è uno dei pochi esempi  di opere realizzate e riuscite nei loro intenti di progettazione cosa che non si può dire di altre nate da  progetti recenti di rinomati e celebri personaggi.

I romani, si sa, hanno l’abitudine al verde : Villa Borghese, Villa Doria Pamphili, Villa Celimontana, Villa Torlonia, Villa Ada, i Parchi archeologici e suburbani, Villa Paganini, il Lungo Tevere che accompagna il Fiume in una miriade di anse lungo tutta la città, i grandi viali alberati e, tuttavia, quel che i romani non hanno è l’abitudine al rispetto del verde anche perché da molti e molti anni chi li ha governati non li ha aiutati in questa abitudine al rispetto. L’erba e lo sporco sono cresciuti in maniera esponenziale. Il verde è indietreggiato, inorridito, lasciando il posto ad ogni genere di lerciume : quello che il turismo giovane, in genere appartenente al gentil sesso, lascia sciaguattando negli zampilli delle fontane, incurante delle norme che al paese loro osservano rigorosamente anche perché, sempre al paese loro, le suddette norme sono rigorosamente fatte osservare; l’altro turismo, quello maschile per intenderci incluso quello meno giovane, batte un buon crawl sempre nelle fontane favorendo il risparmio di una camera con bagno. I romani ammirano le rotondità e il ritmo del crawl e fotografano per pubblicarli in tweet. Ogni tanto qualcuno fra coloro che sgovernano Roma ha un pigro risveglio e detta qualche norma di divieto con relativa pena pecuniaria che, di fatto, non cambia nulla e si continua a fotografare e digitare su tweet qualche foto che illustra lo scempio e la mancanza di rispetto per il genio degli artisti che quelle fontane hanno ideato e creato. Tralasciamo i bivacchi nei luoghi meno appropriati che hanno molto in comune con quelli dei vituperati campi rom. Abbandonati e gli uni e gli altri alla sporcizia, alle male abitudini e all’assoluto disinteresse.

Roma ha tanti di quei secoli addosso di Barbari, Barberini (quod non fecerunt Barbari fecerunt Barberini, più o meno), vandali, corruttori e corrotti, Enea, Romoli e Remi, Giuli Cesari, Bruti, Bonaparti, Savoiardi, Borboni, Guglielmi col chiodo in testa, e Ceccobeppi, sognatori, disillusi da una serie di repubbliche finite come si sa (omissis….) che continua a stare a guardare pensando a quando qualcuno o qualcosa glieli scrollerà di dosso per dar luogo alla stessa mai finita catena. A petto dei passati, questi attuali piccoli litiganti non sono nemmeno capaci di produrre un terzo  incomodo.

Ridono gli occhi di Roma dal Colosseo, mostrando i denti superstiti delle colonne dei Fori levandosi caccole dal naso della colonna Traiana grattandosi via dalle orecchie dell’Isola Tiberina il cerume.

Ed ecco che spunta il mecenate privato attuale che su consiglio di qualcuno, decide che è il caso di regalare un albero a Roma. Anzi due : di bronzo, 18 e 9 metri e fra i rami spunta un blocco di marmo scolpito di ben 11 tonnellate, simbolo della  riappropriazione della natura  con le sue Foglie di pietra, di una parte della città.

A Largo Goldoni.

Vicino alla propria sede imprenditoriale.

E un altro ancora all’EUR.

 

Davanti ad un’altra propria sede imprenditoriale.

Il nome dell’esposizione è Matrice.

Si tratta di opere destinate a far parte del tessuto della città. Un innesto moderno, una struttura di legno e ferro e cemento da una parte e foglie di pietra accanto ad altro legno ferro e cemento.

L’artista è Giuseppe Penone : una sua esaustiva esposizione si è avvalsa della struttura del Mart di Rovereto, un anno fa, per mostrare le tre sezioni di un albero snodarsi per tutta l’altezza dello spazio museale. Il che ha reso l’architetto che ha ideato lo spazio aperto del museo che circonda le scale, molto soddisfatto.

 

 

 

E foglie e tronchi e altri oggetti esprimevano i concetti dell’arte povera (?) dello scultore.

 

 

Più che arte povera è concettuale. L’albero che continua a crescere in ogni sua parte ad eccezione di quella dove è stato inserito un braccio di metallo, ne è un esempio.

 

 

E’ importante, secondo il pensiero di Penone, «Gli alberi ci appaiono solidi, ma se li osserviamo attraverso il tempo, nella loro crescita, diventano una materia fluida e plasmabile.”

“Prolungando il naturale ciclo di vita dell’albero, e sotto lo scalpello di visionari, possenti tronchi e rami intricati diventano sculture viventi. Così querce e sugheri, faggi e palme vittime di calamità naturali o di malattie, tagliati per far posto a nuovi edificati o senescenti nelle aree forestali sono materiale grezzo per opere artistiche metafisiche, come quelle di Penone e Nash. Cangianti, perché variano impercettibilmente nel tempo con il torcersi e il flettersi del legno fresco; effimere perché si degradano inesorabilmente a causa della materia di cui sono fatte. Le fibre degli alberi cambiano a seconda della specie e delle località in cui crescono: l’aria, l’acqua e il vento ne definiscono caratteristiche uniche per ogni esemplare.

L’indissociabilità tra natura e arte accomuna l’artista piemontese a David Nash, scultore britannico che utilizza per le sue opere unicamente tecniche tradizionali, legni dei boschi e piante viventi in crescita.”

Per approfondire :  basta cercare  in libreria la monografia dell’opera di Giuseppe Penone, edita da Electa. Le sue opere sono nei più noti musei del mondo e fanno parte di alcune prestigiose collezioni. Con il suo lavoro è stato invitato, nel corso degli anni, a rilevanti manifestazioni artistiche del panorama contemporaneo. La sua Idee di pietra era presente all’ultima Documenta di Kassel nel Karlsaue Park, dove ha trovato una collocazione permanente. Di seguito sono riportate alcune risposte dell’artista relative a questi temi.

“Il volume, curato da Laurent Busine, direttore del Muséè des Arts Contemporains au Grand-Hornu, in Belgio, è strutturato in modo particolare, per grandi aree tematiche di matrice organica. Come mai questa scelta?
È una lettura che Busine ha fatto guardando il lavoro, che non ha una costruzione logica nel tempo e quindi non avrebbe avuto senso un percorso cronologico. C’era la necessità di dare un ordine a un materiale composito, per togliere una rigidità di insieme che, altrimenti, si sarebbe venuta a creare. È una lettura, questa, che sfugge alla monografia canonica. Svincola il lavoro dalla specificità delle opere finite, c’è più attenzione nei confronti del modo di pensare o di produrre l’opera che non nei confronti della riproduzione e della rappresentazione della stessa

 

Qual è il suo concetto di scultura, medium con la quale lavora da più di quarant’anni?
Qualsiasi gesto che muta fisicamente un contesto si può considerare scultura. Un respiro si può considerare scultura perché modifica l’aria che lo circonda. Un contatto è un’azione di scultura, ma non so se  la scultura è il prodotto del contatto o se è la mutazione della mano che ha prodotto la forma. A questo punto si apre un quesito: dove sta la scultura? Nell’oggetto colpito dal martello? Nel  martello che si è deformato colpendo l’oggetto? O nel braccio che è si modificato per colpire? Sono domande che non trovano risposta. Restano aperte.

In lavori come Albero porta, Cedro di Versailles lei va a cercare la forma dell’albero partendo dal tronco. Si tratta dell’emulazione di un processo naturale?
Le dico esattamente com’è nato. Nel 1968 ho fatto dei lavori sulla crescita dell’albero. Nel 1969, a seguito di questi lavori, ho pensato a un’opera che proponesse una mano che creava un contatto con un albero di una certa età, in un momento specifico, il titolo del lavoro è Continuerà a crescere tranne che in quel punto. Avevo fatto fare la mia mano di acciaio e di bronzo. Poi l’albero cresceva e il contatto rimaneva fissato all’interno del legno. Il mio ragionamento era che se si va a cercare al suo interno si può ritrovare il momento esatto del contatto. Da quello a immaginare che all’interno del legno c’è la forma dell’albero, il passo è stato molto breve. Quindi ho preso un trave, ho cominciato a scavare, ho visto che funzionava e poi ho seguito un anello di crescita dell’albero.
Tutto questo ha un interesse da un punto di vista della pratica della scultura: si ricollega all’idea michelangiolesca, che è anche in certa scultura primitiva, di una presenza primigenia dell’opera all’interno della materia.

Come nei Prigioni. È un’operazione di matrice maieutica?
Si trova anche in Duchamp, usare il prodotto industriale come se fosse una materia della scultura. È uno dei grandi temi, oppure delle caratteristiche, di questa disciplina.”

(Sommessa nota fra parentesi : L’ha fatto anche Piero Manzoni)

Così si esprimono altri critici:

 “Nella mostra Matrice, Giuseppe Penone, che da scultore d’avanguardia ha esposto, tra gli altri, alla Tate Gallery di Londra, al Centre George Pompidou di Parigi ma anche alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna e al Maxxi di Roma, presenta cinquanta opere realizzate in bronzo, cera e legno, utilizzando materiali come il marmo e la pelle. Omaggio alle forze della natura e all’uomo, immersi in un continuo processo evolutivo e di trasformazione. Una metamorfosi estetica che fa dell’arte uno strumento per raccontare tematiche legate all’ambiente, alla sostenibilità e all’ecologia.”

Sarebbe  interessante e, perché no, divertente conoscere il pensiero vegetale e vegetativo della pianta alla quale per studio sperimentazione ecc. è stata impiantata una protesi non richiesta.

Che cosa aggiunge all’arte, nell’opinione di uno storico (dell’arte) ?

Un concetto e una sperimentazione. Di arte povera nei grandiosi saloni dell’EUR, a Largo Goldoni o a via Francesco Crispi sede della galleria Gagosian, dove altre opere erano in esposizione, se n’è percepita poca. Non c’è niente di povero se si pensa al costo di simili istallazioni, al trasporto, per non parlare della creazione, in questo caso si tratta di sculture di grandi dimensioni e peso non comune e di fonderie, di cave di marmo ecc.ecc.ecc.

Lo stesso Penone dice : “Trovo le etichette, nella maggior parte dei casi, coercitive. Forse utili, in taluni frangenti, ma tendenti a una certa superficialità”

 “Dunque veniamo alla domanda: quale è stato il suo rapporto con il gruppo con il quale viene sempre identificato, quello dell’Arte povera?
È un cappello che gli artisti italiani coinvolti hanno accettato perché in Italia negli anni Sessanta e Settanta non c’erano strutture pubbliche che si interessassero  a quello che succedeva nell’arte contemporanea. Anche il collezionismo di quegli anni si è raramente avvicinato agli artisti italiani, preferiva acquistare opere di artisti inglesi, americani. Per esterofilia certo, ma anche per una questione legata a un interesse speculativo. È evidente che comprare un’opera di un artista italiano, di un Paese nel quale non c’erano i musei per ospitare le sue opere, era più svantaggioso che acquistare le opere di un artista proveniente da una situazione economica forte come quella statunitense o successivamente quella tedesca, Paesi che hanno un ottimo sistema museale, che hanno fondazioni culturali, tese a raccogliere e a custodire l’arte. L’opera in tal senso viene difesa con maggiore probabilità di un futuro incremento di valore. Un interesse questo da parte del collezionismo perfettamente logico e legittimo. Il sostegno economico è importantissimo per l’arte. Per produrre delle cose c’è bisogno di denaro.”

Chiariamo il concetto di arte povera. Sempre dal punto di vista dello storico dell’arte. L’arte povera, movimento degli anni sessanta, nasce con Germano Celant e il rifiuto della tradizione per un ritorno alla natura, detto in breve, continua con Mario Merz e Josef Beuyz.  Gli artisti rifiutano l’oggetto artistico e l’idea dell’arte senza tempo che supera i secoli per arrivare all’attuale e trasmettere qualcosa di permanente. E’ un momento transeunte, come la lattuga schiacciata tra due pietre destinata a marcire, di Giovanni Anselmo, affiancata al concetto che non deve essere unica ma si può riprodurre come pensa Paolini con la sua Mimesis copia di un ‘opera classica come fa anche Pistoletto con la Venere degli stracci e prima ancora quando si schiera contro il potere, assieme ad altri, contro la guerra in Vietnam offrendo sagome specchiate alle quali si possono affiancare gli osservatori/visitatori entrando così nei suoi famosi specchi creando un legame con l’artista. Si tratta, pertanto, di un’arte portata alle masse senza tempo di congiunzione tra vari tempi dove l’idea della natura si fa strada, anzi entra nella strada, nel Largo (Goldoni), nella piazza nella città. Non ha niente a che fare con il concetto di povertà che vediamo attorno a noi : mani tese, cartoni che fungono da materassi, pentoloni con operatori che distribuiscono mestolate di cibo, occhi enormi che incatenano altri occhi, sensazioni imbarazzanti e o di ripulsa

 

Sono idee che solo con una grande botta di fortuna possono essere concretizzate. Non si tratta di fare calcoli, salta agli occhi. Ben vengano i mecenati.

I romani ringraziano : a modo loro. Naso in aria e un certo giro per non passare proprio sotto quel masso incatenato sospeso.

In tempi che hanno visto crollare viadotti appena inaugurati, sottovia e sopra via, dove certe nuvole ondeggiano desiderose di riprendere il cammino naturale…

 

 

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Un viaggio d’antan : treno speciale cento-porte da Palermo a Porto Empedocle e ritorno

Ven 02/06/2017 - 01:00

Un treno, sia pure spinto da una motrice più moderna di quella originale dal classico ciuf ciuf – Ferrovie dello Stato pare abbia chiesto agli organizzatori Euro 8.000,00 per metterla a disposizione – è tuttavia proprio quello centoporte, dove ogni vagone ospita piccoli scompartimenti a quattro posti che si fronteggiano, dotato ognuno di sportello per salire e scendere che si blocca con apposita piccola manovella a farfalla, con la scritta libero da una parte e dall’altra bloccato.

Itinerario: Palermo – Porto Empedocle, via Bagheria,Termini Imerese, Alia, Rocca Palumba, Cammarata, San Giovanni Gemini, Aragona Caldare, Agrigento (Akragas) Bassa, Tempio di Vulcano.
Nomi che evocano civiltà antiche, storia dell’umanità, inizio della scrittura e l’invenzione dei numeri, Pirandello e il Kaos. Personaggi che hanno migrato per tutto il Mediterraneo a cominciare da Giufà e i suoi cento e più nomi.

 

I partecipanti hanno affollato gli scompartimenti, inclusi bambini e i ragazzetti eccitati e chiassosi che percorrono, a velocità superiore a quella prevista del treno, i corridoi per rifornirsi al bar di merendine e patatine e bevande varie e di tutto quanto rende obesi.
Un ragazzino che oggi è protagonista ha rubato a suo padre il cappello da capotreno FS e la bandierina verde e ad ogni stazione si affanna a scendere e ad agitare la bandiera per dare la partenza. Si diverte come poche altre volte in vita sua e i viaggiatori con lui.
Qualcuno comincia già a scartare l’involucro di qualche cibaria.
Una gita salto nel passato, a parte i cellulari, che scattano senza posa e per una volta imprimono elettronicamente un paesaggio che certamente dall’alto di un bus turistico lanciato sull’autostrada o da un’auto in corsa non vedi. E per una volta non smanettano su notizie e/o fanno correre velocissimi i pollici per scrivere – si fa per dire – messaggi tronchi dove i numeri stanno spesso per parole compiute e le k per ch, e altre varie criptiche stregonerie, a chi gli sta di fronte a un metro di distanza. Gli occhi seguono il controllore che ti fora (oblitera, termine orrendo) il biglietto che non tutti ri-conoscono, un rettangolino grigiastro molto più ridotto come dimensioni perfino rispetto ad un biglietto di mezzo metropolitano. Qualcuno coi capelli bianchi tira fuori dalla mente o dal cuore qualche ricordo o qualche viaggio truffaldino senza o con doppia foratura mal riparata. “ Guarda qui è tale e quale. Stampato che se lo bagnavi la scritta quasi se ne andava.”. Da sperimentare oggi. Certo no; non esiste la stampa coi caratteri tipografici inseriti in ordine nelle cassettiere di legno. Dove sono finite ? Restaurate solo allo scopo di conservare oggettini acquistati nei viaggi, dipinte di bianco o qualche altro colore non mostrano più il glorioso legno consunto. E i caratteri ? Chi sa. Anche questo fa parte d’un voyage d’antan.

Il treno entra nei frutteti, dondola fra ondulanti vigneti o file di ortaggi, penetra tra eucaliptus, pini, si inerpica fra colline e colline penetra nelle gallerie e affumica doverosamente chi non ha chiuso i finestrini, vale a dire tutti; lo spazio tra vagone e vagone è separato da una porta basculante che, appunto, bascula e gli scompartimenti aperti di legno lucidissimo trasmettono nell’aria un vociare che frulla tutte le conversazioni, le espressioni di meraviglia, in un altisonante ronzio. In realtà per un bel tratto sembra di stare in Umbria e non nel profondo centro della Sicilia.

Due ore di viaggio, col trenino che corre velocissimo in piano e rallenta ansimante in salita trascinandosi appresso questa nenia di voce umana della quale si è persa l’abitudine. Nessuno ha le cuffie alle orecchie, nessuno si estrania, si chiacchiera fra sconosciuti.
La sosta a Tempio di Vulcano permette di scorgere in lontananza il tempio e moltissime colonne laminate d’oro dal sole. Incredibile, c’è anche chi non scatta e si limita ingordamente a guardare

Una campionario di umanità : turisti stranieri, un’artista che tiene in bilico una cassettina di legno piena di quadratini colorati sui quali struscia il pennello prima intinto in una bottiglietta di acqua e dirige pennellate di colore sul foglio di un album, velocissima. E’ un’equilibrista di rara maestria poiché riesce ad avere la meglio sui sobbalzi del treno continui e sulle ruote che non si adagiano morbide sulle rotaie, ma sibilano e lottano con esse per mantenersi in linea. Sembra uscita da un film di Poirot di quelli ambientati nei treni, coi capelli biondi un poco scarmigliati raccolti in modo trascurato in uno chignon. Di fronte ha una fotografa armata di una macchina seria, non di un cellulare, sia pure digitale, che spara a raffica ingordamente avida di immagini. Dall’altro lato del corridoio un’altra, sempre tipo Film Poirot, che chiede severa ai ragazzini che vociano stridenti, se per caso non sono sordi, e poi da tipo colonialista li invia al bar ordinando di riportarle una qualche bevanda tra gli sguardi tra stupiti e un po’ urtati dei genitori. Ma nessuno protesta questo viaggio è un fuori onda, fuori epoca, fuori tutto.
Ad Agrigento bassa, piccola breve sosta, forse per dar fiato alla motrice, si apre la valle e qualche colonna occupa l’intero campo visivo, togliendo il fiato. Gli altri tempii formano un particolare skyline.

E, infine Porto Empedocle, il cemento e la discesa alla spiaggia che si apre in una bella grande distesa piena di acqua, all’apparenza, cristallina che va dal verde, al colore delle alghe, all’azzurro al blu, brulicante di pesciolini.

Le parole : quali parole usare per questa spiaggia che si estende per centinaia e centinaia di metri non diritta ma fatta di linee curve sovrastate da una falesia di un bianco abbacinante che la sovrasta, solcata dal mare, dal vento, dalle tempeste, dal sole in gradoni che ne giustificano il nome : Scala dei Turchi.
E qui è d’obbligo una spiegazione: in Sicilia “turco” non è il turco, proprio no o per lo meno non solo, qui per turco s’intende tutto un territorio e chiunque ne provenga, vale a dire il Magreb e , quindi, marocchini, algerini e via così. Leggenda vuole che i pirati saraceni dalla costa si arrampicassero, per questa gradinata naturale e si spingessero all’interno razziando. Una lunga colonna di formiche che tingeva di scuro tutto quel biancore così come accade oggi se si guarda , appena scesi, in lontananza se si abbraccia con lo sguardo l’estendersi della falesia fatta di marna, calcare e argilla bianca dove, minuscoli, si agitano puntini e puntini neri che man mano che sono raggiunti, si trasformano in moltitudine di turisti, e siamo appena a maggio


Un’altra cosa che fa pensare di non essere in Italia dove ogni centimetro di sabbia è mercificato: per tutta l’estensione dell’arenile c’è un solo chiosco, ottimamente attrezzato, con poche docce e due tolette pulitissime, una per maschietti e una per femminucce, e, udite udite, non ci sono cartacce, involucri di gelati, e altri residui di pranzi al sacco. Per quale miracolo ? Difficile stabilirlo, ma è così. Forse anche questa spiaggia è un luogo che non esiste.
C’è qualcheduno con la puzza sotto al naso, tanto per intendere, quelli che si ritengono superiori agli altri e occupano le poltroncine con sacche per non avere contatto con gli inferiori, ma basta chiedere o guardare negli occhi per fare liberare il posto. Ci sono, come sempre, piccole cerchie elitarie tendenti a escludere coloro che non corrispondono a determinati requisiti, ma c’è talmente tanta abbondanza di spazio che si cancellano e scompaiono. E’ sufficiente escluderli dalla vista.
E’ sufficiente allontanare lo sguardo fino al punto dove l’azzurro del cielo sprofonda in quello del mare e ritrovare, riflessi, i contorni della falesia che si stagliano bianchissimi nella calma assoluta dell’acqua.

E’ ora di tornare dopo una giornata di blu, verde, bianco accecante, vento anche, si torna a salire quanto si era disceso la mattina per arrivare alla spiaggia. I muscoli non sono molto allenati, risentono dell’altra salita quella che dall’arenile si protende sul mare formando diverse baie incombenti coi gradoni torno torno lungo la grande falesia candidamente ingannatrice che induce a pensare a banchine di ghiaccio e ricopre di finissima polvere bianca ogni cosa, abiti e pelle inclusi.
Chi sa come sarà ad agosto. Ma la spiaggia non è la Chiaia di luna di Ponza, o le Marine Piccola e Grande di Capri. Questa ce ne vuole a riempirla. E non è altrettanto famosa. Per il momento. Per fortuna.7

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